Le città italiane straripano di pizzerie, e interpreto questo come un segno di generale decadimento culturale. Attenzione: poche cose nella vita mi danno gioia come la pizza. Ogni tipo di pizza. Al taglio, a portafoglio, surgelata, da panetteria, fatta in casa, sbruciacchiata, quella americana, quella con l’ananas. Ovviamente quella della pizzeria. Le pizzerie hanno quasi sempre luci calde, sono luoghi di ristoro spirituale prima che corporeo e sensoriale. La pizza è rifugio per le anime di un mondo malato.
Se leggete una contraddizione fra l’incipit e il proseguimento, c’è tutta, ma provate a seguirmi: è l’ossessione contemporanea per il “food” (maledizione) il mio totem polemico; che le città siano incistate di ristoranti e ristoratori (spesso neofiti che si lanciano sperando di cavalcare un’onda che rischia presto di schiumare male), che le ragioni del gusto (quello proprio delle papille gustative) siano le più sentite, che l’hobby più diffuso sia “provare ristoranti”.
Ma veniamo alle pizzerie. Perché capita ancora, sebbene di rado, di trovarne alcune che resistano alla tirannia del forno a legna, rigorosamente esposto, meglio se mosaicato. Un lusso anzitutto per gli occhi (che senz’altro, diranno alcuni, modifica sensibilmente il sapore della pietanza). Uno status quo detestabile, mi viene spesso da pensare. E anche, temo, segno di una retorica atavistica che quasi sempre coincide con il più becero oscurantismo.
La domesticazione del fuoco da parte degli umani sembra avere circa un milione e mezzo di anni. Quella dell’elettricità appena 200. Con le dovute proporzioni, con un minimo senso del tempo dovremmo come civiltà ancora stupirci del fatto che possiamo avere forni che cuociono le pizze con l’elettricità. E invece apprezziamo di più quelli che lo fanno bruciando – e dico bruciando, la più irreversibile e antiecologica delle possibilità – pezzi di legna. L’umanità ha forse – e ciò sarebbe deprimente – perso il senso dello stupore? O forse – e ciò sarebbe pericoloso – abbiamo appaltato ai simboli la capacità di stupirci, così prediligendo il forno a legna a quello elettrico, perché è più nostalgico, e ci rimanda alla grotta dell’inizio dei tempi? Ma i simboli, signori miei, sono tutt’altro che innocenti, e noi rischiamo di fare la figura tremenda di quel miserabile che sull’aeroplano si lamenta perché quando l’hostess arriva alla sua fila il pollo è finito e c’è solo la pasta scotta (ma lui intanto sta volando, in un tubo di metallo, a diecimila piedi sopra l’oceano).
Così quando mi capita a Torino di incrociare una pizzeria da cui fuori si vede un forno elettrico, io la premio, ci entro, e la pizza di solito è buona. Mi sembra un atto dovuto, proletario, di resistenza. Sento che quel pizzaiolo è un po’ più un compagno. Lo so, è anche questa una forma di nostalgia verso tempi che non ci sono più.
La morale, se c’è, è che possiamo e dobbiamo sceglierci le nostre nostalgie, senza per forza ammassarci tutti quanti attorno a quelle che altri hanno predisposto, con sontuosi interessi, per noi. Ché i pezzi di legna a un certo punto finiscono, e allora torneremo a sognare pecore elettriche. Fino al blackout.

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