Lamæntinus

Cose di cui francamente nessuno sentiva il bisogno

AFFARI NOSTRI

Ho scavicchiato, e ho anche aperto. Ovvero del diritto a una buona consolazione.

La vita di mia nonna ha dei tratti di oggettiva tragicità, per motivi che non dettaglierò qui. È una donna intelligente, vicina ai novanta, parla diverse lingue. Da qualche anno vive coi miei, e ha un rito inderogabile: Affari tuoi. Così tutte le sere, di sostanzialmente tutto l’anno, prende religiosamente parte all’ipnosi collettiva.

I riti sono tutti vuoti, alla fin fine, ma alcuni sono più vuoti di altri. Prendi Affari tuoi. Nell’ultimo, eccellente film di Richard Kelly (prima che Hollywood lo allontanasse perché chiaramente troppo bravo), The Box (2009), una giovane coppia riceve in dono una scatola misteriosa da parte di un enigmatico individuo. Al suo interno un pulsante rosso: se lo premeranno riceveranno un milione di dollari, ma una persona a caso nel mondo morirà. Il dilemma etico, una sorta di versione aggiornata al capitalismo del classico carrello ferroviario, è lapalissiano. Sei disposto a causare la morte di qualcuno per una tua magrissima consolazione? Non vi dico cosa succede nel film, e mi fermo alla questione della scatola, che Kelly mutua dal racconto Button, Button di Richard Mateson (1970).

La mia impressione è che le venti scatole di Affari tuoi, ognuna, come si conviene, per una regione italiana, siano l’equivalente di quella del film, ma più potenti. Ogni volta che se ne apre una un milione di italiani muore, con l’aggravante che si tratta di un suicidio collettivo. Un milione di italiani si prende per mano, poi tutti sorridono e si buttano sotto un treno, come nell’eccezionale Suicide Club di Sion Sono (2002). Questo perché Affari tuoi è un rito tanto vuoto quanto vorace, che ti consuma un’ora al giorno; muori per un’ora, che è un ventiquattresimo del quotidiano, mentre quelli fanno i balletti scemi. Ogni ventiquattro giorni uno intero lo hai passato in una cella dell’obitorio, se non morto almeno non vivo. È come togliere a un ventiquattrenne un anno di vita, scegliete voi se quello brutto delle scuole medie in cui ha subìto bullismo o quello bello del liceo in cui ha scoperto l’amore.

Se partire è un po’ morire, guardare Affari tuoi è morire senza un po’. E morire ha in sé qualcosa di profondamente consolatorio. Facciamo un salto da mia nonna a me, che di certo non mi considero un esempio di probità, quantomeno rispetto alla questione. Io stasera so già che andrò a dormire tardi, troppo tardi (alcuni la chiamano revenge bedtime procrastination), facendomi semi-volontariamente risucchiare dal perfido gorgo di TikTok. E in quel tempo lentissimo che la piattaforma mi succhierà via sarò morto, nella pace dei sensi, nel morbido utero della consolazione. Ho capito dunque che Affari tuoi è il TikTok di mia nonna, e io non sono nessuno per giudicarla. Lei lì trova la sua petite mort come io la trovo in un video in cui si recensiscono i sughi pronti Barilla. Che me ne importa delle altre 23 ore della vita, quando la mezzanotte atomica è il tre e mezzo che prende il ragù contadino con carne suina 100% italiana.

Ora il punto è: quello di consolarci è un privilegio e un potere enorme. Pensiamo a chi di solito affidiamo il delicatissimo compito di lenire i malanni della nostra quotidianità. Persone fidate, amici, affetti più cari. In pochissimi hanno la chiave per aggiustare le nostre afflizioni. Se non sono persone, allora è l’arte. E dunque, a pensarci bene, com’è possibile che lo stesso enorme privilegio l’abbiamo svenduto ad Affari tuoi e a TikTok? Non avremmo diritto, per miseri che siamo tutti quanti, a una consolazione migliore? Se proprio vogliamo morire, a una morte più dignitosa?  

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