Lamæntinus

Cose di cui francamente nessuno sentiva il bisogno

Sul picacismo (che non è un Pokémon) cinematografico

Chi si cura dei rifiuti del cinema? Ed è poi così perverso farne un succulento banchetto?

Da quando l’immaginario comune è stato violentemente aggredito dai Pokémon ogni qualvolta noi si dica “picacismo” (non sono tante le occasioni, me ne rendo conto) viene subito in mente il roditore elettrico giallo. In realtà la singolare espressione designa invece uno specifico disturbo del comportamento alimentare, comune a umani e altre specie, per il quale “ci si ciba” di sostanze non nutritive, spesso rivoltanti. Questa è anche la condizione sofferta da Kelly, giovane protagonista di The Unhealer, un brutto film di Martin Guigui del 2020.

Kelly è uno studente delle scuole superiori, vive in uno scampolo bruciato dei profondi USA (simile per atmosfere a quello ben più stimolante di Gummo, Harmony Korine 1997), ed è vittima di pesante bullismo. Così si innesca il circolo vizioso: mangia rifiuti perché lo bullizzano, lo bullizzano perché mangia rifiuti, in un uroboro perverso destinato a non avere fine. Almeno fin quando per “magia” non ha un contatto con il guaritore Pflueger, che inconsapevolmente gli cede il suo immenso potere (a sua volta “rubato” da un’antica forza appannaggio dei nativi americani). Da ora Kelly sarà inscalfibile, e ogni angheria fisica che subirà si ritorcerà immediatamente contro l’aggressore.

Da qui il film, non già partendo da premesse particolarmente interessanti, si schianta da tutti i punti di vista. Drammaturgicamente è un colabrodo. Registicamente è dilettantesco. Moralmente è dozzinale. Attorialmente è trash. Cosa salvare allora? Forse proprio il discorso sul picacismo, da cui siamo partiti. Anzitutto perché la questione è di fatto non poi così popolare. In secondo luogo perché, a volersi sforzare di applicare una buona dose di carità ermeneutica, allora il film può comunque costituire una discreta metafora.

Se, come vuole il riduzionismo della filosofia deformata a tatuaggio, siamo quel che mangiamo, è chiaro dunque che mangiare i rifiuti non è un atto solo e squisitamente patologico. I bulli di Kelly, d’altronde, insistono nel chiamarlo “spazzatura”, e lui, derubricato a freak, non può che infine allinearsi con la fenomenologia che gli è imposta da fuori. Kelly, come tutti noi, prova a definirsi, a trovare una propria identità, ma è infine lo sguardo dell’altro a dire a tutti – lui compreso – chi è. Anche il mancato riconoscimento è una forma di riconoscimento.

Si può allora immaginare una traslazione del picacismo da condizione comportamentale a sintomo sociale. E questo è in generale un modo allettante di leggere come politicamente rilevanti molti altri tipi di disturbi, altrimenti comunemente “semplificati” alla guisa di esiti di traumi esclusivamente personali. In un film altrettanto recente, Swallow (Carlo Mirabella-Davis 2019), una donna è affetta da picacismo, e noi capiamo che la compulsione ha radici nella sua infanzia. Si tratta in questo caso di un’opera decisamente più riuscita del nostro caso, ma cui manca quell’elemento di tensione sociologica che invece in The Unhealer – pur se in un didascalismo imbarazzante, e senza che ci sia mai lo straccio di un approfondimento – è degna di nota.

Vorrei infine suggerire una forma di picacismo che sento particolarmente mia, e che riguarda il rapporto alimentare che intrattengo con il cinema. Guardare film come The Unhealer è in effetti molto simile a mangiare i peggiori scarti. Si tratta di una allotriofagia di cui vado fiero e che rivendico, perché nobilita la scoria, il rifiuto, la deiezione. Tutto quanto la cultura materiale e materialista cui siamo immersi ci invita invece a scaricare nelle fogne del rimosso pubblico. Potrei dire che questa volontà, a piccole dosi, di ingurgitare i rifiuti del cinema, mi definisce; il riciclatore, l’upcycler, l’ecologista dell’immagine, il pervertito del guilty pleasure. Ma non varrebbe niente. Saranno gli altri, come per Kelly, a confermarmi la spazzatura che io sono.

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