Ci sono sedi – non questa – in cui se non ti occupi dell’immediato presente allora sei fuori dai giochi. Ci sono sedi – questa – dove posso permettermi di trattare anche film “vecchiotti”. È il caso di Zootropolis, uscito nel 2016 (Byron Howard e Rich Moore), e che solo recentemente ho recuperato. Per colpa tutta mia, e cioè per la totale umoralità che mi contraddistingue in quanto spettatore di cinema d’animazione (devo proprio averci voglia). Non me ne sono pentito, il film è un gioiellino pre-pandemico, che mi conferma quello che sento come più di un sospetto: Disney fa tendenzialmente bene il suo lavoro quanto si sciacqua di dosso i remake e le nostalgie dei bei tempi andati (la colpa più imperdonabile rimane per me l’oscenità del Pinocchio del povero Zemeckis, uno dei miei miti).
Siamo nel pieno dello schema classico: massicce dosi di buoni sentimenti, struttura da Bildungsroman, antropomorfismo utopistico. Quest’ultimo il nodo che mi interessa esplorare: Disney ci ha abituato a una specifica ideologia della natura, per la quale gli animali non umani sono equiparabili agli animali umani. Così Zootropolis è una megalopoli – composta da diversi biomi (la savana, la tundra, la foresta amazzonica, il deserto, il cuore della città) – in cui predatori e prede convivono amabilmente. Lontani i tempi in cui i primi davano la caccia alle seconde. Ci sono però due grandi ma: il primo è che questa futuribile società armoniosa non è così armoniosa, e anzi lo spettro delle antiche rivalità si ripresenta e risolvere il pasticciaccio sarà compito della strana coppia (che fa dell’opera un buddy movie in stile Jack Lemmon e Walter Matthau) composta dalla coniglietta Judy e dalla volpe Nick. Un po’ Red e Toby, a ben pensarci.
Il secondo ma, più sotterraneo, riguarda invece la conformazione stessa dell’utopia, la cui facciata nasconde una maschera diabolica. Zootropolis si presenta come la città ideale, proprio in quanto crogiolo di differenze che la rendono pulsante (l’influencer Gazelle, una sexy gazzella cantante, lo specifica durante il film). Però in un paio di momenti il film si perita di specificare che ciò vale per i mammiferi. Il che a ben pensarci genera uno strano antispecismo specista. A Zootropolis ci devono essere i pesci, gli anfibi, gli uccelli, anche se sapientemente non li vediamo mai. Dobbiamo immaginare che ci siano. Dobbiamo anche immaginare che quei ghepardi che vanno in metropolitana coi criceti debbano nutrirsi in qualche modo, e che sebbene fra mammiferi si siano sepolte le asce di guerra i carnivori siano rimasti tali (il film d’altro canto non suggerisce una totale veganizzazione dei mammiferi).
Questo dato non inficia chiaramente sul giudizio nei confronti del film, che è in buona sostanza gradevolissimo (e che vanta alcuni momenti di spassoso acume). Ci racconta però della difficoltà di immaginare un’armonia universale, perché non appena si fonda un’utopia essa inizia a percolare contraddizioni. Specie se lo si fa a partire da un paradigma antropocentrico. Gli animali di Zootropolis sono tali fenotipicamente, ma oramai null’altro li distingue dagli esseri umani. Hanno lavori, famiglie, ambizioni tipicamente umane. L’antropomorfizzazione Disney è un’operazione necessariamente superficiale. L’umanizzazione dell’animale non può che in un certo senso coincidere con una riproposizione dello specifico antropologico: la lotta per le risorse e il loro consumo a discapito dell’altro. Il progetto opposto, l’animalizzazione dell’umano, mi pare sia poco praticato. In casa Disney ci hanno provato nel 1967, seguendo il romanzo di Rudyard Kipling del 1894. Ma era uno specchietto per le allodole: Mowgli cresce nella giungla, dovrebbe comportarsi come gli animali, ma in realtà nel film sono semmai gli animali a comportarsi come gli umani (a partire dal fatto che parlano). In Human Nature (Michel Gondry 2001) con ostinazione il Dr. Nathan Bronfman prova a insegnare le buone maniere ai topi. Per non parlare del Dr. Dolittle (ancora una volta un dottore, come emblema della più avanzata forma di umanità), che quando capisce di saper parlare con gli animali si accorge che l’unica differenza fra noi e loro è di natura glottologica (è un fatto di linguaggio).
Senza voler incedere nelle fesserie di coloro che pensano che l’unica vera utopia coincide con la fine dell’umanità, è chiaro che l’antropomorfizzazione, ad oggi, rivela le sue pieghe più problematiche, e che un cinema dell’animale umanizzato che vi sfugga è se non impossibile, allora ben lungi da venire.

Lascia un commento