Trump è stato rieletto, il dato è noto a chiunque. Nelle sue primissime ore di mandato ci ha tenuto a firmare dei provvedimenti esemplari, consistenti nella revoca formale di alcune disposizioni in vigore dall’amministrazione Biden. Fra i tanti, come l’uscita degli USA dalla Oms e dall’Accordo sul clima di Parigi, uno di quelli che mi ha colpito di più è il ripristino del pugno duro in tema di pena capitale. Pare che fosse un’urgenza del ri-neo-presidente, non appena rioccupata la poltrona dello Studio Ovale, garantire che il penitenziario di Terre Haute in Indiana (dove avvengono molte delle esecuzioni degli Stati Uniti) avesse una buona scorta di farmaci per le iniezioni letali. Chiaro che Trump non può fare proprio quello che vuole (o quasi), ma la cosa ha effetto più per le sue conseguenze simboliche che non per quelle immediatamente fattuali. Legittima il nesso assurdo fra democrazia ed esecuzione capitale, rendendolo meno controintuitivo di quanto naturalmente dovrebbe apparire.
Il tema della pena di morte non è più di moda. Come se la questione fosse superata. A parte il fatto che la pena capitale è praticata ancora in paesi che ci piacciono tanto, come il simpatico e kawaii Giappone (ultima esecuzione nel 2022), negli Stati Uniti, “la più grande democrazia del mondo”, questa non è solo prevista, ma di fatto anche caldeggiata dal Presidente del Paese. Dovrebbero tremarci i polsi al sol pensiero, ma quel che è successo è stato che invece l’agenda mediatica si è vista colonizzare da un ben più serio problema: il destino di TikTok su suolo statunitense.
Ora, non mi sfugge – credetemi – che attorno alla piattaforma cinese si edifichi un impero economico che, se minato, rischia di intaccare anche professionisti di basso e medio livello, rendendogli la vita difficile. Su questo punto, mi si lasci dire che forse il problema è a monte, nel credere (non si sa bene su quale base) che queste piattaforme siano eterne e che in qualche modo siano territori liberi (anche per questo trovo sempre ridicole le polemiche sul fact checking quando applicate a Facebook e via discorrendo, come se qualcuno ci avesse obbligati a informarci sui fatti a partire da un sistema proprietario e palesemente non interessato a divenire baluardo di una informazione libera e veritiera).
Ma al di là di ciò, quello che più mi stranisce è che il tema tiktokiano sia più urgente di quello della pena di morte. Nulla di nuovo sul fronte squisitamente occidentale, provando a ragionare per induzione: la comunicazione, oggi principalmente in mano a un oligopolio di galantuomini i cui nomi e volti sono impressi nella nostra mente (galantuomini che per inciso sono tutti partiti dal loro garage), è la vera sfera d’influenza attraverso la quale spartirsi il potere. Lo ha detto lo stesso Trump, la cui bruta onestà mi investe come una locomotiva: se ho vinto con il voto dei giovani è grazie anche a TikTok, quindi certo che mi interessa. In sostanza lo dice in faccia, senza nemmeno provare a mentire, che per lui è una questione di consenso personale, e gli americani (e l’occidente intero) anziché prendere la palla al balzo e lottare per liberarsene fanno invece le proteste perché senza TikTok come fanno sennò? Sindrome di Stoccolma? Mi pare eufemistico.
La verità è che morta una TikTok se ne farà un’altra, ma che rimarrà il problema di fondo, di uno stato di trance collettiva che ci anestetizza verso qualsiasi cosa (ivi compresa l’idea che uno Stato che si proclama democratico possa vantare fra i suoi strumenti quello di mandare nel braccio della morte qualcuno, fosse anche il più bieco degli esseri umani). Attenzione: l’anestesia è totale, ma insidiosa. Perché tutti noi siamo convinti che no, in fondo siamo persone profonde, abbiamo a cuore le cose importanti, siamo impegnati nelle nostre fondamentali battaglie. E i mezzi di comunicazione contemporanei ci aiutano a pensarci come in questo wokissimo stato di grazia.
Ma il mio è solo ingenuo, volgare benaltrismo. Uniamoci tutti dunque attorno ai destini di TikTok, in un abbraccio che cinge il globo intiero. Lasciamoci stritolare dalle gioie mesmeriche dell’infinite scrolling. Sarà una stretta calda, nel bagnasciuga della coscienza, sempre meno dolorosa di quella del braccio della morte.

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