Quella della controprogrammazione è una pratica classica nella costruzione dei palinsesti televisivi. Se una rete concorrente va in onda con un determinato contenuto, si prova a darle battaglia proponendo qualcosa di competitivo, anche di radicalmente opposto. Controprogrammare vuol dire posizionarsi su un altro versante, su un sistema di valori opposto, facendo proprio leva sulla differenza che si stabilisce con le reti avversarie. Il termine oggi è molto poco usato, e questo è problematico. È sintomatico infatti di un sostanziale allineamento nel sistema dei media, che seguendo una sorta di intuitiva “teoria dei giochi”, preferisce lavorare come una massa organica, piuttosto che presentarsi come un dominio policentrico di alternative. Vale lo stesso nella “neo-televisione” dei social, dove la cosiddetta viralità identifica dinamiche di omologazione e di trend, che appiattiscono ogni presupposto per un pluralismo di sguardi.
Pochissimi giorni fa è andata in onda la finale del Festival di Sanremo. Mi fregio di non averla vista, né di aver indugiato nemmeno 1 minuto i giorni precedenti di fronte a quello che considero uno scempio su tutti i fronti. A scanso di equivoci, pur non avendola vista, sfortunatamente so tutto, conosco, capisco (onde evitare che mi si accusi di non essere aggiornato su cose tanto rilevanti). Se qualcuno può sentirsi toccato da queste mie considerazioni, vi chiedo di ridimensionare – e di molto – le vostre prospettive: non me la sto prendendo direttamente con voi (i quali, in molti casi, potreste anche avere dei motivi “leciti” per sorbirvi la kermesse). E in ogni caso considerare Sanremo per quel che di fatto è non mi sembra che possa essere equiparabile, come si sarebbe detto un tempo, a “insultarvi la mamma”. Da ultimo, a riguardo: se mi date dello snob sbagliate di grosso. Per me la dialettica fra centro e periferie della cultura, fra mainstream e flussi secondari, è una cosa seria. È che semplicemente Sanremo non è il mainstream, quanto piuttosto rappresenta un contenitore di pochezza – su tutti i fronti (musicale, televisivo, e via dicendo) – che dovrebbe, semplicemente, smettere di interessarci. Quando Chiara Valerio dichiara a Rai Radio 3 che “Sanremo è qualcosa su cui bisogna confrontarsi, perché è qualcosa di contemporaneo e perché è qualcosa di cui discutono tutti”, adducendo il fatto che bisogna in qualche modo scendere a patti con la semiotica del festival, io mi deprimo, pensando che se questi sono gli intellettuali di riferimento nel nostro Paese allora è finita. Io non ho intenzione di confrontarmi con nessuno su Sanremo. Se Sanremo rappresenta il contemporaneo io voglio proporne un’alternativa, mi rifiuto di accettare che lo stesso tempo che abito io debba essere definito da una manifestazione così reazionaria. Non ho intenzione di insegnare ai miei studenti che capire la comunicazione contemporanea significhi allinearsi a essa. Contemporaneo un corno.
Torniamo dunque alla controprogrammazione. La sera della finale di Sanremo le altre reti generaliste (la tv è morta? Mah, infatti mezza Italia era davanti alla tv) decidevano di mandare in onda i seguenti contenuti: Cena con delitto – Knives Out su Rai 2 (un divertente film, che mi sentirei di consigliare, del 2019 di Rian Johnson), France su Rai 3 (una scelta azzardata, cinema d’autore puro, Bruno Dumont 2021), Scarface su Rete 4 (un classico intramontabile, piacevolissimo per me e per quei vecchietti fidelizzati alla rete), Quasi amici su Canale 5 (il film paraculo che va bene sempre, senza infamia e senza lode, a mo’ di tappabuchi), Il ragazzo che diventerà Re su Italia 1 (cinema per ragazzi nella rete storicamente “per ragazzi” di Mediaset, Joe Cornish 2019), Indovina chi viene a cena su La7 (un tuffo nel profondo passato, per prendere forse quelli che avevano già visto Scarface). Tutti film, manco a Natale.
Cosa ci insegna questa controprogrammazione? Che nella serata della finale di Sanremo la televisione generalista diventa una sorta di utopia cinefila, offrendo in prime time, nella fascia di ascolti più alti, un fitto panorama cinematografico per accontentare tutti i palati? Sarebbe bello. In realtà purtroppo ci racconta invece di un utilizzo “sicuro” del cinema, da piazzare quando si sa già che la serata è persa, e che tanto vale – proprio per non oscurare direttamente il canale – buttare lì qualche film di cui si hanno i diritti. Ne conseguono due considerazioni: la prima è che, povero cinema, spiace davvero pensare che il grosso del pubblico trovi più stimolante Carlo Conti a Scarface. E non mi si dica che avevano già tutti visto il capolavoro di Brian De Palma del 1983, ché genuinamente non ci credo. Anche perché sono, ahinoi, non i vecchi, ma i giovani e i giovanissimi a reggere il cero di Sanremo anno dopo anno, ancora una volta scoraggiandomi. Ragazzi, voi questo mondo dovevate bruciarlo, e invece giocate al FantaSanremo… La seconda riguarda invece la totale vigliaccheria della concorrenza e del sistema dei media stessi, che proprio sapendo di perdere la serata dovrebbe trovare il coraggio per davvero di proporre una controprogrammazione coi fiocchi. Giocare in perdita è spesso una mossa vincente. Mi immagino dibattiti accesi sull’ateismo, trasmissioni sessualmente disinibite, messa in onda di quei talenti che altrimenti stavano lì, da parte, in attesa della loro occasione. Ma è roba complessa e io rischio di fare la figura del vecchio trombone che non sa divertirsi (mi si spiegherà poi se anche quando ci si vuole solo e sanamente divertire bisogna necessariamente assecondare dei fuocherelli di paglia come quello dell’Ariston).
Sanremo potrebbe rappresentare proprio questo. Un’occasione per dire qualcosa di diverso, non dentro, ma fuori dal programma, dalla Rete, dai meme consunti dei The Jackal. Dalla liturgia del guilty pleasure ostentato (cosa c’è davvero di peccaminoso nel fare una cosa che fa la stragrande maggioranza?). E invece no: è il totalitarismo. Questa la pecca più grave dell’orrenda trasmissione: aver convinto tutti che non può esserci alcuna alternativa. Allora poi non lamentiamoci. Io però non accetto che mi si dica che sbaglio a considerare la miglior scelta ignorarlo. È una scelta etica, o, se vogliamo, di etica della comunicazione. E una settimana all’anno della mia vita non la regalo né la regalerò mai a Mara Venier (che a Sanremo è sempre inquadrata, mentre gli adepti adoranti di tutta Italia si sciolgono nel solluchero, sbraitando bramosamente “Zia Mara”).

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