Ontario, Canada, profondo inverno. La placida cittadina di Pontypool versa in una tremenda ma ordinaria tormenta. Ma noi siamo barricati dentro gli studi di una stazione radio locale, dove lo speaker vecchio stile Grant Mazzy – una leggenda della radiofonia – va in onda con la sua impertinente trasmissione quotidiana. Sembra un noioso giorno come gli altri, ma da fuori iniziano ad arrivare notizie sconcertanti: le persone si stanno tramutando in qualcosa di strano, sono rabbiose, assetate di sangue, autodistruttive. È la fine di Pontypool, forse la fine del mondo.
Pontypool, in italiano seguito dalla tagline Zitto… o muori, è un film del 2008 diretto da Bruce McDonald; l’ultimo dei film del regista che ha avuto una distribuzione italiana. Ho rivisto il film dopo anni perché devo parlarne per un podcast, e mi faceva piacere “rinfrescarlo”. Si tratta di un film indipendente, piccolo, non scevro da pecche, ma di assoluto interesse, specie per chi si interessi di cinema e di linguaggio (tanto che vi si cita con una certa nonchalance il Roland Barthes de L’ovvio e l’ottuso). La tremenda epidemia che colpisce inesorabilmente il centro urbano canadese si trasmette, infatti, con le parole, e il povero conduttore probabilmente ne è fra le cause. Pontypool così, in tempi non sospetti, articola una riflessione su quella che poi avremmo chiamato “viralità”, in riferimento alla circolazione incontrollata di pezzi di linguaggio.
Non mancano nel film riferimenti spiccatamente politici e antimilitareschi. Se infatti il conduttore radiofonico sembra aver scoperto una sorta di antidoto semiotico, cioè quello di svincolare il significante dal significato, proponendo associazioni estemporanee (“Il mare è rotolo! Volare è blu! La pietra è ponente!”) o esercitando quel giochino che facciamo ogni tanto di ripetere all’infinito un termine per esperirne lo svuotarsi di senso (scarpa scarpa scarpa scarpa scarpa scarpa…), la risposta istituzionale è quella di mettere in quarantena l’intera cittadina e bombardarla, facendone tabula rasa. Ferisce più la penna della spada, ma le bombe mettono d’accordo tutti.
Quel che colpisce di Pontypool è la spavalderia del cinema indipendente. È un film claustrofobico, per ragioni di budget ma non solo, che ha il coraggio di investire su un’idea che chiaramente con difficoltà troverebbe mercato in un circuito mainstream. Ci sono gli “zombie”, ma si vedono pochissimo. E tutto ha a che fare con una sorta di distorsione nemmeno più semantica, ma procedurale. Diceva Ferdinand De Saussure che nel segno il significante e il significato “sono strettamente uniti e si richiamano l’un l’altro – si possono paragonare alle due facce di uno stesso foglio”. Impossibile dunque immaginare dei significanti o dei significati che viaggino autonomamente, in un sistema semiotico autenticamente monoplanare (la questione è di quelle serie, su cui ancora ci scorna). Se ciò avviene, se il linguaggio diventa a-semico, pura fonazione, puro disturbo ossessivo compulsivo, allora si sta abdicando alla propria umanità, essendo gli umani animali linguistici. Come si ha l’impressione che capiti nell’era dello sharing maniacale (Ehi! Hai visto quei dodici TikTok che ti ho mandato? Sono incredibili! C’è anche un tizio che taglia della sabbia!).
Ma queste sono pure speculazioni teoretiche, che in Pontypool si rintracciano in sordina, anche se poi scopri che lo sceneggiatore Tony Burgess si è laureato nel 1995 in semiotica, all’Università di Toronto, e capisci che i tuoi sospetti erano fondati. Laddove aveva insegnato, fra gli altri, Marshall McLuhan. La qual cosa, induttivamente, spiega anche il perché sia proprio lo studio radiofonico il setting di un film che coniuga semiologia e mediologia. È la radio come avamposto mediale definitivo, ultimo, always on (la regia indugia sul cartello on air). Grant Mazzy è un uomo di spettacolo, ma più largamente un uomo dei mezzi di comunicazione. Dà le notizie man mano che arrivano, deve mediare, deve provare nel darle a capirle. Maneggia un potere enorme, che manifesta la sua sensibilità nel momento della crisi.
La radio è il mezzo più solido di tutti (anche nell’era del live tweeting, o forse dovrei dire live x-ing), quello che ha il compito di insinuarsi quando il resto è ridotto a macerie, quando fuori c’è, wellesianamente, La guerra dei mondi. E Pontypool è un film destinato a rimanere sottotraccia, come una gemma ancora tutta da scoprire.

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