Spopolano su TikTok e non solo video dedicati alla città di Chongqing, megalopoli cinese con oltre 32 milioni di abitanti, una superficie che è come quella dell’Austria, e contraddistinta da una peculiare architettura multilivello, che asseconda il suo posizionamento a ridosso di una catena montuosa. Nonostante il suo essere una città in rapida espansione, e uno dei principali centri produttivi cinesi, in occidente il nome di Chongqing non è ancora diffuso, ma prevedo che nel giro di qualche anno esso circolerà sempre di più, proprio per via di TikTok.
In questi contenuti virali succede quello che succede più o meno sempre. La città viene ridotta a una serie di scorci, ai suoi tratti “caratteristici”. L’urbanità segmentata come insieme di vedute “particolari”. Nutro verso l’aggettivo “particolare” un fastidio particolare. Quando si dice di una persona, di un film, di una città che sono particolari, si sta sottintendendo un giudizio specifico: non sono nella norma. Ma senza prendersi l’onore di argomentare l’estetica a cui si fa riferimento. La “particolarità” è una forma di banalizzazione.
Prendiamo proprio Chongqing, che nei video virali diviene, sempre, la “città cyberpunk in stile Blade Runner”, e che convoglia la sua particolarità a piazza Kuixinglou. Questa piazza, infatti, dissimula il suo trovarsi al ventiduesimo piano, ed è emblematica della struttura urbana della città intera, in cui – altro contenuto ad alto tasso virale – i treni passano in mezzo ai palazzi (in realtà un treno passa per un palazzo, nella zona di Liziba station).
Si verificano così due fenomeni interessanti: un universo mondo che ha circa metà abitanti, fra centro e hinterland, del suolo italiano, viene scoperto, diventa attrattivo, apre a nuove frontiere. La qual cosa assimila l’esploratore digitale a quello che nel vecchissimo mondo girovagava in cerca di terre straniere (salvo che lo stupore digitale è, ahinoi, una forma estremamente depauperata ed effimera rispetto a quello analogico). L’altra faccia della medaglia è però che il mondo intero, di cui Chongqing è una piccola parte, viene sempre più trivializzato, divenendo niente più che una serie di immagini copia-carbone, le une uguali alle altre. E così se vai a Chongqing non potrai che ricercare quelle quattro cose che ti sono rimbalzate sugli occhi centinaia di volte. Ivi compreso mangiare l’hotpot, naturalmente, il piatto tipico della città piccante sul confine con il Sichuan.
Questa triste tendenza non è una novità per i social, tanto che da anni è diffusissimo un trend: Instagram vs Reality. Così qualcuno simpaticamente distrugge la gentrificazione dell’iconosfera operata dai social, mostrandoci il reale dietro la finzione scenica dei post online. Non mancando però di dirci che: 1. Quel reale è tale proprio in virtù della viralità e 2. Lo stesso trend distruttivo entra nel circuito di inflazione simbolica e tendenzialmente non assolve a una funzione di sanatoria nei confronti dei luoghi deturpati dai cacciatori di selfie e di like.
Questo, purtroppo, sarà anche il destino di Chongqing, che inevitabilmente diverrà meta di turismo – parola non necessariamente negativa – indiscriminato proprio per via dell’impellenza suggerita dai social. È successo al Giappone, sta succedendo alla Corea, e nel giro di qualche anno sarà destino anche della Cina. Per chi ci è stato sarà solo un bel ricordo quella frase comune: “Mi guardavano in maniera incuriosita perché ero l’unico occidentale”.
L’esotismo – e nello specifico quello che Edward Said ha chiamato orientalismo (1978) – nell’era della globalizzazione dei media è tutt’altro che morto. Semplicemente si è riarticolato nella forma di una meraviglia momentanea, da quattro lire, e che vale quanto una figurina.

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