Lamæntinus

Cose di cui francamente nessuno sentiva il bisogno

Che fine ha fatto Baby Jane? E che fine ha fatto lo psycho-biddy?

Sul cinema delle vecchie impazzite.

Che fine ha fatto Baby Jane? è un film cult che in pochi, oggi, menzionano. Ancora meno lo hanno visto. Film derivativo del 1962, che molto deve a Viale del tramonto (Billy Wilder 1950), opera più nota di Robert Aldrich (lo stesso di Quella sporca ultima meta, di cui forse qualcuno ricorda il remake del 2005 con Adam Sandler), Baby Jane è un film importante per molti motivi. Vi si respira una tensione tutta “adlrichiana”, che traghetta il cinema americano – con un certo anticipo – dalla florida fase della Hollywood classica (qui già rantolante) ai fasti oscuri della Nuova Hollywood. Ancora vi si vedono pulsanti una serie di istanze del tutto contemporanee: il film è invero la storia di una relazione che oggi diremmo “tossica” fra due sorelle, entrambe vecchie glorie del cinema, asimmetricamente invecchiate e cadute nel dimenticatoio. C’è, fra le due, una forma di co-dipendenza acuita da un immenso senso di colpa per via di un incidente d’auto che ha causato la paralisi perenne dell’una per colpa dell’altra (o almeno così crediamo). C’è ancora una certa, caustica verve metafilmica di base, che riflette sardonicamente sull’ideologia di una Hollywood dorata e sorridente. E, ancora, ci sono violenza, sadismo, morbosità, invidia, daddy issues e un finale quasi torture porn. Il tutto in un film a quasi esclusiva presenza femminile (alla faccia di quella sciocchezza del test di Bechdel), dove l’unico ruolo significativo di un uomo dà dell’universo maschile un’immagine tremenda, dal momento che l’individuo in questione è un povero idiotino.

Il film apre, almeno secondo il “canone”, a un filone che è stato variamente chiamato psycho-biddy, hagsploitation, grand dame guignol. Si tratta in sostanza di una linea narrativa che prevede donne invecchiate male, che in memoria dei bei tempi andati diventano folli, pericolose, temibili. La variante hagsploitation rende conto di una specifica declinazione per la quale queste donne invecchiate sono attrici decadute. Ha senso oggi parlare di un film – bruttarello se non insulso – come The Substance (Coralie Fargeat 2024) in termini di un’opera di questo tipo. Solo che, ahinoi, in The Substance è tutto così stucchevolmente manifesto e polarizzato da smettere di essere interessante. Al contrario in film come Baby Jane la radice del trauma che porta la protagonista a diventare una vecchia megera è inquietante perché non chiara. C’è, poi, chiaramente una questione di genere (cioè di gender), ma non è tutto lì, e anzi sul finale capiamo che lo spettro che regola il rapporto fra le due sorelle non è assoggettabile a logiche semplicistiche. Si odiano, ma pure si amano. Come può accadere quando ti vuoi tanto bene con qualcuno (più difficilmente viceversa).

La vena problematicamente (ma fascinosamente) gerontofobica dello psycho-biddy resta nel cinema, da Baby Jane in poi, un filone aureo. Negli anni ’60 le copie-carbone del film di Aldrich non si contano, ma ancora oggi un certo cinema orgogliosamente “di genere” recupera il tema eloquente della “vecchiaccia maledetta”, che per motivi rilevantissimi ci turba più del vecchiaccio maledetto (maschio). Nel contemporaneo, proprio per scrostare, mi vengono in mente casi come X: A Sexy Horror Story (Ti West 2022) o The Visit (M. Night Shyamalan 2015). Ma basta scavicchiare appena un po’ nella memoria, focalizzando sulla figura, che i casi si moltiplicano. 

Vale la pena di riaprire in maniera sistematica il tema della vecchiaia nel nostro immaginario, come alcuni autori hanno fatto. Penso al testo di Giumelli del 2018, Vecchi, vecchie e vecchiaie: nella letteratura e nel cinema, o alla curatela Vecchie allo specchio del centro CIRSDe di Torino (2012).

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