Lamæntinus

Cose di cui francamente nessuno sentiva il bisogno

I cinesi nei ristoranti cinesi assumono gli italiani

Breve riflessione fra sinofilia ed Elisabetta Canalis.

Se avete un po’ di esperienza di ristoranti cinesi e orientali e provate ad applicarvi uno sguardo strabico, in parte orientato all’oggi, in parte proiettato allo ieri, inizierete a notare una serie di significative diversità. Questi posti, apparentemente sempre uguali a se stessi (anche per questo li amiamo, considerandoli come pietre immutabili in un mondo che tutto attorno decade), possono pure aver tenute intatte le loro carte da parati, gli errori di traduzione sui menù (il famoso e memetico pollo alla Elisabetta Canalis), i prezzi concorrenziali. Ma le loro geografie culturali interne invece rivelano più o meno tutto.

Due cose mi colpiscono molto: la lingua e il personale. Per quanto riguarda la prima, fino a poco a più di dieci anni fa in un ristorante cinese a Torino l’italiano era una lingua passepartout, ma comunque claudicante. Ci si capiva quanto serviva per portare a termine l’ordinazione, e naturalmente tutto lo sforzo era in capo ai gestori cinesi. Noi, miserrimi, al più ci lanciavamo in imbarazzanti xiè xiè o simili. Oggi nei ristoranti cinesi si parla un italiano ottimo, anche perché spesso a servire ci sono le seconde generazioni, di ragazze e ragazzi nati e cresciuti in Italia. Li vediamo con i loro smartphone fra una pausa e l’altra. Sono perfettamente parte della nostra sfera. Il che significa che la “cinesità” del ristorante è un retaggio genitoriale, e non è detto che fra vent’anni esisterà ancora (quella cinesità, e il ristorante così come lo conosciamo).

Il secondo elemento è quello del personale. Se vent’anni fa in un ristorante (così come da un parrucchiere) cinese era ovvio aspettarsi solo cinesi, di cui non sapevamo dove vivessero, e che ci immaginavamo come cerchie famigliari chiuse nel loro “mondo a parte”, oggi sempre di più vi troviamo invece a lavorare italiani o persone di altra nazionalità. Il che non mi pone – per inciso – alcun problema. Anzi, mi fa addirittura un po’ piacere, perché è un segno di come la nostra hybris nazionalista si sfracelli di fronte alla normalità di un mondo che si ibrida. Certo, qualcuno potrà dirmi che c’è qualcosa che non torna, su un piano più alto, e che riguarda una progressiva forma di colonialismo economico che sta avvenendo in maniera sibillina sotto ai nostri occhi. Posso seguire un ragionamento di questo tipo, ma temo che la lente macrosociale e quella microsociale per certi fenomeni siano scarsamente compatibili. Di persone parliamo, da entrambi i lati. Persone che lavorano, persone che cercano lavoro. Chi ne offre, chi ne dà. E questa è una ruota che gira e che in Italia vede da un po’ di tempo una inversione di cui bisogna prendere atto.

Side reflection: l’inflazione avanza, l’occidente trema, siamo tutti un po’ più poveri. Non è retorica, è così, lo possiamo misurare ognuno con i nostri mezzi (c’è una fettina sottile e potentissima di popolazione che ovviamente non è compresa nel discorso, ed è invece parte del problema); ciò detto non toglieteci il nostro ristorante cinese quotidiano. Non è nemmeno un fatto di comfort food, quanto di comfort place. Il ristorante cinese oggi è come il bar era negli anni ‘70. Un luogo che serve per darci l’illusione, almeno per un attimo, che tutto vada bene. Che per il tempo di un gyoza, siamo ancora tutti vivi.

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