Non sono uno psicologo, non mi permetto di indulgere in una materia non mia, quindi prendete quel che sto per scrivere come pura impressione personale (non sono uno psicologo, ma ho una psiche, e vivo in una società).
Parto dunque da qui, da una impressione, che ho da un po’ di tempo. E cioè che siamo tutti, in forme cangianti, più o meno diverse, sempre più ansiosi. La qual cosa è allarmante, ma mi sembra di intravederne alcune cause. Ci sono cause macrosociali, che ci opprimono e che, spesso, ci obbligano – come strategia inconscia – a tentare di non pensarci (ma è l’elefante bianco, che provi a scacciare ma ritorna con la sua proboscide).
Se questo – la rimozione – è un atteggiamento colpevole, io non lo so, ma è evidente che un mondo che va come va, e che day by day ci scaraventa addosso catastrofi a manovella (un’Europa che parla con atteggiamento di gravità, ma in realtà con leggerezza, di “ombrelli nucleari”, produce effetti inauditi sulla psiche collettiva), produce in tutti noi – più o meno percettibilmente – grossissimi scompensi. Ci sono poi (con)cause microsociali, che in qualche modo minano gravemente il nostro benessere. Dico concause perché ipotizzo che il nostro affanno sia anche un tentativo sotterraneo di rispondere, come riusciamo, alle pressioni delle cause macrosociali. Ma da ciò consegue una epidemia di stress pretestuosi, e una progressiva trasformazione delle componenti basilari della vita (anzitutto: il lavoro) in vera e propria malattia, in cui il rapporto costo-beneficio pende sempre di più sul primo termine.
Christophe Dejours parla di “banalizzazione della ingiustizia sociale” e di “servitù volontaria”. Byung-chul Han di “società della stanchezza”. Come stai? Stanco.
Io, nel mio piccolo, pulviscolare ambiente, esperisco ad esempio, da anni, una burocratizzazione stancante, divenuta ormai una sorta di lotta quotidiana. Ogni azione, anche la più banale, quella per cui a trovarvi della malafede bisogna far fatica, è sottoposta a una eterna moltiplicazione dei passaggi, ai limiti dell’autoconsistenza. Così fare un lavoro bello come quello che faccio io (ricerca e insegnamento) diventa spesso confrontarsi con prassi mostruose, la cui necessità è dubbia, e che rischiano di prosciugare quel serbatoio (non certo inesauribile) di entusiasmo fondamentale per poter lavorare bene. Ma fuoriuscendo dal mio misero orticello, com’è possibile che quasi tutti i coetanei con cui mi trovo a discorrere mi raccontano dei loro problemi lavorativi, del fatto che la loro vita sta divenendo impossibile? Perché continuano, perché continuiamo a farlo allora? Perché non facciamo come ci insegnano certi influncer, molliamo tutto e iniziamo a viaggiare? Mollo tutto e apro un chiringuito. No, signori miei, non è così che funziona. Ahinoi, è il ricatto, quello che ci tiene (quasi) tutti appesi.
Dire di avere l’ansia oggi è una moda. Ma chi conosce l’ansia sa che non c’è niente di piacevole in essa. Il fatto stesso che sia “di moda” dirsi ansiosi è già di per sé un segnale preoccupante. Da un lato banalizza una condizione assolutamente dura se non, a tratti, invalidante, che dovremmo voler evitare come singoli ma anche come comunità. Dall’altro ci dice che, in un certo senso, probabilmente è vero. La società contemporanea si è “ammalata”, per colpe complesse da tracciare, ma che sicuramente trovano una propria ragione nel nostro modo di vivere, dominato da FOMO da un lato e insostenibili modalità di lavorare per guadagnarsi il pane dall’altro.

Lascia un commento