Nell’impianto retorico di un discorso alle volte si adopera una particolare strategia, quella del “truismo”. Con questo termine – poco comune – si intende un’affermazione “ovvia, evidente, indiscutibile, tale che è o sarebbe ridicolo enunciarla o superfluo spiegarla” (Treccani). Venditori e affabulatori fanno gran uso dei truismi per avvicinarsi a potenziali clienti: naturalmente lei vuole risparmiare il più possibile e allo stesso tempo ottenere il prodotto di migliore qualità. È ovvio, chi vorrebbe il contrario (in realtà in molti prediligono invece spendere di più, ma questa è un’altra storia).
Ci sono dunque i truismi, ma ci sono anche i discorsi che si fingono “truistici”, cioè che si raccontano come ovvi, ma tanto ovvi non sono. C’è cioè una retorica – secondo termine poco comune – apodittica: “discorso apodittico, enunciato o pronunciato in tono dogmatico, senza dimostrazione e senza sostegno di prove” (sempre Treccani). Chi fa un discorso apodittico di fatto camuffa ciò che dice come se fosse un truismo, una verità ovvia e indiscutibile, con un certo tipo di tono. Un esempio: tutti gli esseri umani cercano naturalmente la felicità. Così chi ascolta, se non è particolarmente attento, ci casca.
Mi sembra che questo sia il caso dell’ipercitato, in questi giorni, discorso di Vecchioni di qualche giorno fa, in occasione della manifestazione Una piazza per l’Europa. Vecchioni cioè ha mascherato da truismi, mediante toni apodittici, una serie di strampalati e tetri concetti, che proverò ora, a grandi linee, a interpretare. Cogliendo peraltro lo spirito del discorso di Vecchioni stesso, che invocando i fasti della cultura europea non potrà prendersela con chi vi applichi un po’ di esegesi (parola questa grecissima, ἐξήγησις).
Vecchioni si presenta con la classica domanda retorica: “Ma di che cosa vogliamo parlare scusate?”. Ecco la premessa truistica: la verità, sembra suggerire Vecchioni, è talmente evidente e granitica, che parlarne è superfluo. È una mossa classica, che mira a convincere chi ascolta che quanto sentirà è solo un’ovvietà, condivisibile prima ancora di essere sentita. La conseguenza logica di un incipit del genere sarebbe naturalmente non parlare, ma sappiamo bene che in realtà questo non avverrà. L’aggancio opera da captatio benevolentiae: io non devo convincervi, siamo già d’accordo. Quello che dirò quindi è una conferma non del mio, bensì del nostro pensiero.
Dopodiché l’oratore si lancia in una sorta di raffazzonato elenco di qualità condivise da “noi”, gli europei, che vantiamo gli stessi prodromi: “[…] un gruppo di Stati che vengono dalle stesse cose e tradizioni, siamo tutti indoeuropei, abbiamo avuto una filologia romanza, parliamo allo stesso modo, ci guardiamo allo stesso modo, abbiamo gli stessi proverbi, modi di dire, pensieri, anche se dentro l’anima abbiamo cose leggermente diverse; permettiamo tutte le religioni, abbiamo [sic: tengo le sgrammaticature come sono state pronunciate] i diritti a tutti di essere, di esistere, di vivere, di conformarsi e non conformarsi, abbiamo libertà ovunque, abbiamo la democrazie. Ma quella non ce l’hanno tutti, ce l’abbiamo noi… che è un’invenzione – come ha detto Bentivoglio – dei greci”.
Fermiamoci un attimo qui: Vecchioni sta usando la tattica retorica dell’elenco. La “vertigine della lista” di cui parlavamo ieri.
L’elenco è un dispositivo principalmente quantitativo, che se proferito con tono enfatico annacqua ogni elemento con quelli che lo seguono e lo precedono nel sintagma. Così si evita di cogliere la sicura eterogeneità, e il ricorso a figure problematiche. Gli Stati che vengono dalle stesse “cose” (termine generico) e “tradizioni” (termine assai problematico, e smontato con acume – le tradizioni, signori, non esistono – da Hobsbawm e Ranger). Abbiamo avuto la filologia romanza (ma in realtà non è condivisa in tutta l’Europa). Siamo tutti indoeuropei: questa è una tautologia, è chiaro che chi è in Europa è indoeuropeo (almeno chi vi è, e non è poco, per lignaggio) quanto lo è che gli animali che popolano il mare sono animali marini. Abbiamo varie strutture linguistiche condivise (sarà poi vero? L’ungherese viene dall’ugrofinnico, l’estone è uralico, e così via), anche se dentro l’anima abbiamo cose leggermente diverse: qui c’è il ricorso al termine anima, non casuale, che ci vuole uniti nel linguaggio ma dissimili da un punto di vista trascendente, anche se Vecchioni non si perita di spiegare come (ma sembra una concessione para-religiosa). Permettiamo le religioni e i diritti. Abbiamo le democrazie, che non hanno tutti.
Ecco dove si schianta l’elenco di Vecchioni, che di fatto apre a una strutturazione antifrastica del discorso, mirata a stabilire cosa differenzia noi dagli altri. Questa è in generale la dorsale retorica su cui si regge l’intero impianto discorsivo, che appunto non si poggia sull’onere dell’argomentazione, quanto su quello del truismo.
Noi siamo diversi, e, anzi, siamo meglio.
Noi abbiamo le democrazie, gli altri no. Quindi Vecchioni fa intendere al suo pubblico di stare costruendo un “ragionamento” fondato su una logica oppositiva. Vale la pena di dire che questo, fino ad adesso (e anche più avanti) più che un ragionamento sarà un entimema: “Nome dato da Aristotele al sillogismo retorico, deducente ‘da verosimiglianze o da segni’ (ἐξ εἰκότων καὶ σημείων), e cioè argomentante da premesse non del tutto certe o nei loro dati di fatto o nelle loro connessioni logiche” (ancora, per comodità, Treccani). Vecchioni sostiene che noi siamo migliori, e la tesi è gravissima, ma non si sforza di dimostrarla.
“Ora, voi chiudete gli occhi un momento e pensate ai nomi che vi dico. Io vi dico Socrate, Spinoza, Cartesio, Hegel, Marx, Shakespeare, Cervantes, Pirandello, Manzoni, Leopardi; ma gli altri le hanno queste cose?”. Dal pubblico si leva un timido applauso. Siamo ancora nella dinamica classica dell’elenco, pensato per inebriare l’uditorio con una pletora di nomi altisonanti e, dunque, entimematicamente, impareggiabili. Qual è il contenuto tristemente nascosto dietro questa inveterata filippica? La proposta di un suprematismo culturale, che basta a se stesso. La proposta di un protezionismo letterario, stolido e irriducibile, che colpevolmente ignora che per ogni nome sciorinato da Vecchioni ce n’è un altro non europeo di eguale caratura. Proviamo a proporne una decina che risponderebbero adeguatamente a quelli pronunciati dal cantante professore: Confucio, Nāgārjuna, Ralph Waldo Emerson, Zhu Xi, José Carlos Mariátegui, Walt Whitman, Gabriel García Márquez, Toni Morrison, James Baldwin, Emily Dickinson. Sono i primi dieci che mi sono venuti in mente. Vecchioni qui la fa grossa.
“L’Europa – continua Vecchioni – è pensiero continuo […] con errori infiniti, perché la democrazia è fatta da errori da correggere, non nasce perfetta. Nasce perfetta la destra, che non ha errori da correggere perché ha un solo scopo, ed è quello di dominare e schiacciare”. Ora, qui c’è una tipica confusione categoriale. Vecchioni esalta la democrazia, idealizzandola, e adottando la strategia del riconoscimento dei propri errori (una apologia). La democrazia viene presentata come non perfetta, ma perfettibile. Poi però, a supporto delle proprie affermazioni, slitta sulla “destra”, in qualche modo implicando che la destra è per sua natura “non democratica”. Ora, al di là delle propensioni ideologiche di ognuno (e potete immaginare le mie), mi sembra che ci sia di nuovo un problema nel ragionamento: la democrazia infatti ha la necessità di contemperare la destra; non ha semplicemente senso contrapporre un sistema politico – la democrazia – con una delle sue componenti strutturali – la destra, intesa come una parte dell’opinione politica che la democrazia, in quanto tale, dovrebbe preservare. A rigor di logica, Vecchioni avrebbe potuto dire che la democrazia è imperfetta, mentre perfette nascono le oclocrazie, le dittature della maggioranza, le autocrazie e così via. Non so cosa sia imperfetto o perfetto, ma sicuro molto poco perfetto mi pare questo passaggio del discorso.
“Allora voi siate convinti, ma lo siete già, perché sennò non sareste in questa piazza, siate convinti che non esiste corrispondenza fra pace e pacifismo; sono due cose molto molto diverse, molto. Quelli che la menano in questa maniera, o non l’hanno capito o fan gli gnorri, perché non si può accettare qualsiasi pace. E pacifisti, pacifisti siamo noi perché teniamo alla nostra cultura. Poi questa parola ‘cultura’ dovrebbe finire qui, perché non so come sia a parte qualche intellettuale in America, dovrebbe essere nostra e basta. E certamente è nostra la cultura, loro non sanno cosa sia. Noi siamo, abbiamo l’obbligo pacifista di far vedere agli altri che possiamo difenderci coi denti. E quindi non siamo guerrafondai, assolutamente no. Amiamo la nostra terra, e quelle vicine”. Questo è il passaggio finale, prima dell’encomio, che esprime la sua colpevole confusionarietà anche negli anacoluti (“la frattura di una sequenza sintattica mediante l’intromissione di un altro frammento sintatticamente sconnesso”, ancora Treccani), riportati letteralmente. Ora, Vecchioni riprende l’apodittica: siate convinti, ma lo siete già, sennò non sareste qui. A dire: quanto vi dico non ha bisogno della vostra approvazione, perché voi già lo approvate. Siamo tutti dalla stessa parte. Questa premessa è necessaria per Vecchioni, perché sta per consegnare il cuore pulsante del discorso, la peroratio: non esiste corrispondenza fra pace e pacifismo.
Purtroppo questo è veramente il punto più basso, perché è chiaro che Vecchioni stia scimmiottando una sorta di paragone in sordina di tipo resistenziale (più avanti: possiamo difenderci coi denti), ma manca ogni onere dell’argomentazione, e di adeguata contestualizzazione storica. Anzi, Vecchioni qui si slabbra in una serie di stoccate una peggiore dell’altra, e lascia che il lavoro retorico sia condotto in generale da quella che si chiama anfibolia (mette insieme termini equivoci che facendo massa sembrano corroborarsi a vicenda).
Pacifisti siamo noi perché teniamo alla nostra cultura. Scusa, in che senso? Nesso assente.
La parola “cultura” dovrebbe finire qui, dove per “qui” si intende che siamo noi gli unici dignitari di poterla adoperare.
E certamente è nostra, la cultura, loro non sanno cosa sia.
Insomma, tutto concorre a marcare un’opposizione netta e irrisolvibile, che, vale la pena di sottolineare ancora una volta, è antistorica, imbevuta di spirito coloniale, presuntuosa, e – spiace dirlo – ignorante (non dico che sia ignorante Vecchioni, ma certamente la proposta discorsiva lo è). Naturalmente il pubblico applaude, istigato dai toni (quella che nella retorica antica si chiama actio) che fanno dell’elenco di fallacie una sorta di macro-argumentum ad populum. In parole povere: è populista.
Chiude, Vecchioni, con una fase di “scaricamento”, in qualche modo contraddicendo tutto quanto ha implicato in precedenza. Noi non siamo guerrafondai – eppure il suo discorso era animato da polarizzazioni che facevano evincere una certa bellicosità – amiamo la nostra terra, e quelle vicine. Di nuovo una fallacia, quella che si chiama tecnicamente una ignoratio elenchi: ho detto A (non siamo guerrafondai), e dimostro B (amiamo la nostra terra), dove fra A e B non c’è un rapporto di pertinenza o di consecutio chiara.
Il risultato è il paradosso: è tutto fumoso, ma anche, ahinoi, sensibilmente chiaro, il discorso di Vecchioni, che ci tiene a una ulteriore, finale, adulatio: “E scusa ai giovani devo chiedere […] dobbiamo rimediare […] soprattutto ai giovani voglio dire che sono loro che devono rimediare alle cazzate che abbiamo fatto”. Perché Vecchioni chiede scusa ai giovani? Quali sono le cazzate a cui fa riferimento? Non ci è dato saperlo, ma il tono sembra deresponsabilizzante, proprio quando finge di essere il contrario: se pensi di avere fatto delle cazzate e sei ancora vivo, potresti anche unirti ai fantomatici giovani che stai convocando. C’è insomma, nel tenore polarizzante generale, anche una sorta di separazione netta fra diverse generazioni, che finge di essere positiva ma in realtà rimarca un sistema deteriore di differenze.
Ora, concludendo, il grosso problema, a mio avviso, è che Vecchioni – cui è dato il potere di parlare a un pubblico numeroso – si sia presentato con un discorso sgangherato che è, però, mi pare, dolosamente sgangherato, e da cui traspaiono una serie di punti molto sdrucciolevoli. Se Vecchioni chiede scusa per le cazzate che ha fatto, lui e chi rappresenta (i “vecchioni”?), allora perché l’impianto retorico che adotta è lo specchio esatto di tali, immagino, cazzate? Cazzate divisive, fondate su una idea di cultura come modo di sopraffazione, fondate su una orrenda gerarchia delle culture? Attenzione, Vecchioni non scriveva un saggio, parlava a una piazza, per cui si può in un certo senso soprassedere su una serie di elementi colloquiali (le “cazzate”, ad esempio). Tuttavia ciò mi pare non giustifichi il senso generale che si evince dalle sue parole, ben lontane direi tanto da un discorso sulla pace, quanto da uno pacifista (visto che, faccio finta di non capire perché, Vecchioni tende a considerare i due termini sconnessi). Mala tempora currunt… sed peiora parantur.

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