Lamæntinus

Cose di cui francamente nessuno sentiva il bisogno

Vita e controvita militare nel cinema italiano contemporaneo

Giacché di militari si continua a parlare…

Non spiccano nel cinema italiano contemporaneo (o comunque “recente”) numerosi film dedicati alla vita militare in senso stretto. Nondimeno alcuni rari casi degni di menzione esistono, e risulta interessante citarli come esempi di prodotti ove la guerra, anche se non concretizzata, è trattata come ente in potenza, il cui presagio modifica la vita di chi lo avverte e la cui ombra è radicata in precisi apparati statali, come gli eserciti.

Così è emblematico, sin dal titolo, Naja (Angelo Longoni 1998), derivato da una pièce teatrale dello stesso regista. Il film tratteggia con taglio aspro le condizioni alienanti di vita dei militari di leva sezionando il microcosmo di cinque personaggi costretti in caserma nel giorno di libera uscita, poiché accusati di vandalismo nei bagni della camerata. L’espediente innesca un film di chiara impronta teatrale, estremamente parlato, che focalizza l’attenzione sul lato umano dei protagonisti, man mano rivelati come persone prima ancora che come soldati, in un continuo gioco all’accusa e al rinfaccio, fino al tragico finale che vedrà il suicidio di uno di questi. Il fenomeno dei “suicidi da caserma” – si ricordi il seminale Palla di Lardo di Full Metal Jacket (Kubrick 1987) – è così l’acme di una narrazione costruita su toni claustrofobici e “neo-veristi” (Bo, ‘Il messaggero’, 6 Marzo 1998), fatta di una recitazione spesso irrealisticamente esagitata accompagnata da una colonna sonora vivaldiana, che in qualche modo vogliono descrivere la naja come apparato in grado di amplificare il sentimento dei giovani e distorcerlo verso orizzonti negativi, proclivi al parossismo. Non si rintracciano ad oggi molti altri film in tema “naja” nel cinema italiano contemporaneo, nonostante il servizio militare possa apparire in qualche sequenza significativa in opere però dedicate ad altre questioni, come nel caso di Ovosodo (Paolo Virzì 1997).

Tuttavia esistono dimensioni speculari alla leva rappresentate maggiormente, come quella dell’obiezione di coscienza, su cui si basa Tutti giù per terra (Davide Ferrario 1997), o dell’abbandono della carriera militare, rappresentato in La porta delle 7 stelle (Pasquale Pozzessere 2004). Il primo film è ambientato a Torino e racconta la storia di Walter, personaggio sveviano incapace di trovare una collocazione esistenziale soddisfacente nel mondo, e che evita il servizio militare prestando servizio civile in un centro di assistenza per extracomunitari, solo per vedere confermata la sua incapacità di adattamento sociale. Nel secondo film il protagonista David, talento pianistico e personalità geniale, vive vicende travagliate che lo portano a seguire diverse piste lavorative e sociali, fra le quali la carriera come pilota nell’aviazione militare italiana, che abbandonerà in seguito all’improvvisa scomparsa del padre. I film di Ferrario e di Pozzessere dunque, seppure significativamente diversi (a partire dal tenore strettamente locale del primo e marcatamente internazionale del secondo), differiscono da Naja innanzitutto per l’atmosfera non più corale, ma nuovamente individuale. Sul tema più specifico della diserzione si può menzionare inoltre La guerra degli Antò (Riccardo Milani 1999), che pur focalizzandosi sul disagio giovanile a partire dalla storia di quattro ragazzi punk propone l’episodio di uno di loro che scappa onde evitare di essere arruolato nella marina militare in seguito allo scoppio della prima guerra del Golfo.

Un posto a parte se lo ritaglia poi Io giuro – Appunti di donne soldato (Maria Martinelli 2009), documentario emiliano dai forti toni cinematografici che descrive le dieci settimane di addestramento di un gruppo di cinquecento ragazze (volontarie tra i 18 e i 25 anni, come previsto dalla legge 380/1999) del plotone della caserma di Ascoli Piceno. La tematica della vita militare è qui affrontata esclusivamente dal punto di vista femminile, spesso trascurato dall’immaginario comune dell’Esercito. Il ruolo della donna come membro attivo delle forze armate è così rappresentato nel suo momento più delicato, quello che ha a che fare con il passaggio dalla condizione di civile a quella di soldato, con una focalizzazione mirata sulla guerra – anche solo potenziale – come dispositivo di cambiamento che influisce sulle disposizioni dell’individuo socialmente (la donna acquisisce un valore socialmente inedito), fisiologicamente (i suoi ritmi di vita sono standardizzati secondo le norme interne all’accademia militare), fisicamente (il suo abbigliamento viene appiattito nell’unicum della divisa). Tale processo è documentato dalle sue fasi iniziatiche ai momenti più densi dell’addestramento, fatti di una mutazione spesso anche dolorosa, sul piano fisico come su quello psicologico, fino al giuramento, momento di conferma solenne e incontrovertibile dell’avvenuto passaggio di stato, civile e umano.

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