Mi è capitato in tempi recenti di sentire utilizzare il termine “dialettica” in un modo, mi pare, assai peculiare. Per bocca di un noto giornalista italiano si faceva menzione della “dialettica” come di una sorta di armamentario. Mi permetto qui di non citare verbatim i passaggi, reclamando nell’epoca dei virgolettati, spesso falsi, un antico diritto alla sintesi, che poi coinciderebbe con un diritto da parte dell’autore di poter essere creduto nella sua interpretazione di un dato fenomeno (vuoi per una sua presupposta autorevolezza, vuoi per come il suo discorso si fa stringente), o nel caso smentito con una migliore, più puntuale e condivisibile interpretazione del suddetto. Insomma, la “dialettica” ne uscirebbe come una un equipaggiamento, fatto al contempo di nozioni e di tecniche discorsive, pronto allo scopo di distruggere l’alterità. Questo punto è nodale. L’ars oratoria, in entrambe le reiterate esternazioni, risulta piegata a un singolo obiettivo, che peraltro appare assai connotato in termini metaforici: essere bravi parlatori è come essere bravi guerriglieri, in una tenzone dove non si può che uscire vincitori o sconfitti.
Chi dice “dialettica” così intendendola sbaglia? Non mi pare. Cioè, costoro compiono un’azione specifica, selezionando nella complessa semantica che sta dietro il lemma uno specifico “aspetto” (per dirla come avrebbe fatto Charles Sanders Peirce), quello che vede nello spazio dialettico un agone, e narcotizzandone tutti gli altri. Si tratta dunque di un utilizzo parziale della parola, così come accade – pacificamente – per buona parte di quelle che adoperiamo ogni giorno. A cui però, questo va detto, soggiace un’ideologia del linguaggio specifica, che temo sia a sua volta figlia di una tendenza mediale prima, e sociale poi, a premiare la prepotenza, anche quando questa non passa attraverso le nocche ferrate di un tirapugni.
Se infatti si intende la dialettica esclusivamente in simili termini, allora pare che si ragioni in un contesto in cui le dinamiche discorsive si piegano sulla pars destruens. Ma dove va a finire allora la pars costruens? E la dialettica come arte che più che annichilire persuade, convince, concilia? E ancora, esiste (se mai è esistito) in un regime discorsivo impostato su queste premesse un qualche principio di etica della comunicazione? Mi spiego meglio: si può “avere ragione” in molti modi. Quando litighiamo con amici o con cari, a una certa può succedere che una delle due parti dica all’altra “hai ragione”. Ciò, ne converrete, non significa che quest’ultima aveva per davvero ragione, ma più banalmente ci dice che qualcuno si era stancato di discutere. Più sottilmente, quando, con la forza delle nostre parole, ammutoliamo qualcun altro, riducendolo a quella patetica figura di colei o colui che “non sa più cosa dire”, abbiamo davvero ragione? Non c’è alcuna motivazione logica per sostenerlo, e se immagino nemmeno si possano accampare ragioni filosofiche, allora si tratterebbe di un massimalismo poco edificante. In sostanza: chi “prova di aver ragione” sulla base della propria forza oratoria ottiene la ragione sul piano di quello specifico campo discorsivo, ma potrebbe tranquillamente aver mentito per farlo, o semplicemente essersi fondato su false credenze senza nemmeno saperlo. Non c’è un filo diretto, a meno che questo non sia individuabile, fra ragione sul piano dialettico e ragione logica, etica, morale.
Porsi queste domande è cruciale, perché si badi bene che la “retorica della dialettica” alla base di certe, ostentate e testosteroniche affermazioni, per cui al termine di uno scambio un gladiatore festeggia brandendo la testa ammutolita (morta) dell’avversario, si fonda su un implicito, e cinico fraintendimento: che chi vince nella battaglia dialettica lo fa perché possedeva i migliori argomenti. Mai affermazione fu più sibillinamente contradditoria: è senz’altro possibile argomentare senza avere i giusti argomenti, e la storia della retorica antica, che altro non fu che il luogo in cui si svilupparono le tecniche dialettiche che ancora oggi adoperiamo, ci insegna che il discorso vincente in termini comunicativi può essere ben distante dal vero. Questo è forse il primo punto da mettere in chiaro, ancora di più se condividiamo il pensiero di trovarci in un’era dove l’onere dell’argomentazione è spesso sacrificato in virtù di altre modalità di convincimento. L’arte dialettica è capillarmente costruita attorno a pseudo-esempi, entimemi, dispositivi di depistaggio, dimostrazioni fallaci. È così da sempre, e sarà così per sempre; è in fondo anche il bello del linguaggio come comune strumento di trasformazione della realtà.
Va detto, per inciso, che in questi termini tuttavia la dialettica, che altro non è che l’applicazione fattuale della retorica (il momento in cui la formulazione potenziale del discorso passa dalla potenza all’atto), rimane sterile per chiunque, salvo che per chi la adopera, che naturalmente esce dal conflitto – essendo per lei o lui la dialettica esclusivamente contestuale a una contesa – soddisfatto. Forse è il caso che a costoro si faccia presente però, con una certa chiarezza, che stanno adoperando il linguaggio riconducendolo esclusivamente a una dimensione giocattolesca (sacrosanta, per carità, ma problematica), e che la loro vittoria non necessariamente prova la loro ragione, tanto più se costoro eludono un ulteriore dato, fondamentale: chi intraprende un’interazione dialettica non lo fa, quasi mai, in condizione di simmetria contestuale. Il giornalista di cui sopra ingaggia le proprie battaglie in televisione, su internet, nei giornali; lo streamer sul web. Entrambi operano comunicativamente in un contesto, che ha le sue regole, i suoi generi, i suoi limiti e finanche i suoi pregi. Chi è posto come loro avversario, di contro, non necessariamente ha le loro stesse competenze o gli stessi mezzi. A volte l’asimmetria rispetto alle competenze contestuali è peraltro significativa, e l’effetto è quello che si ha guardando la famosa scena in cui Indiana Jones colpisce con una pistolettata l’arabo spadaccino, che aveva appena finito di dare prova della sua abilità con l’arma bianca. Certo, Indie vince, ma sulla correttezza del duello sorge più d’un dubbio.
È dunque possibile un’altra dialettica? Bisogna credere di sì. Bisogna cioè credere che anzitutto la padronanza dialettica non vada intesa come patrimonio esclusivamente personale, ma come ricchezza condivisa, comunitaria, sociale; senza essere troppo antipaticamente hegeliani, è nella dialettica come dimensione conflittuale in cui a una tesi si oppone un’antitesi, è lì che si genera la sintesi come nuova, più completa e complessa prospettiva sul mondo. Di contro, la retorica della dialettica come arma anzitutto svilisce plurivocamente quella strana cosa che chiamiamo cultura, riducendola a un ring dove dei cani rabbiosi si pestano, e il pubblico sta fuori a guardare con la bava alla bocca. E ancora la dialettica come arma non produce mai effettivamente una sintesi: è la tesi a vincere sull’antitesi o viceversa. Dopodiché tutti a casa. Lo spettacolo è finito, cala il sipario, l’unico ad averci guadagnato è l’egocentrismo di chi ha vinto.
Ora, a scanso di equivoci, ché non si adduca che sono un bacchettone da ipercorrettismi e “porgi l’altra guancia”: io dico, spesso e in gran quantità, parolacce; mi capita anche di bestemmiare; alle volte litigo e in quel caso voglio vincere; non sono un fan della cancel culture; eccetera eccetera eccetera. Queste biasimevoli mie caratteristiche mi definiscono come persona, inserita in un contesto sociale. Così vale per tutti gli altri che non sono me, ognuno con le sue opinioni e le sue abitudini linguistiche e comunicative.

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