La mia bolla social, cioè gli algoritmi che si nutrono delle mie frequentazioni digitali (e che le mie frequentazioni digitali nutrono) ovviamente traboccano di contenuti cinematografici. La qual cosa è apparentemente positiva, perché contribuisce a tenermi costantemente aggiornato.
D’altro canto mi pare, in seguito a diversi anni dal suo avvento, di poter avanzare due ipotesi circa questa specifica modalità di aggiornamento culturale a fondazione algoritmica. La prima riguarda la FOMO, mio classico totem polemico. Essere tutti i giorni a tutte le ore subissati da materiali informativi circa le imminenti e imprescindibili novità del mercato ti pone in una situazione di perenne affanno. Ciò che recuperi sarà sempre meno di ciò che ti perdi, fosse anche solo per ragioni di tempo vitale (anche se, come me, sei un tipo che dorme poco). E, inoltre, un approccio bulimico alla cinefilia rimane per me problematico nella misura in cui difficilmente il cervello riuscirà a tenere traccia della mole di stimoli che ci investono durante la visione di un film, figurarsi di una indefinita caterva a nastro, in stile vecchi Kaiten-zushi.
Il secondo punto riguarda l’insidioso rapporto fra cinema contemporaneo e clickbait. Vero, il cinema è una macchina industriale e di mercato, ha sempre avuto un rapporto privilegiato con la pubblicità, ed è noto che sin dai primissimi film dei Lumière i due pionieri avessero contemperato la possibilità del cinema stesso di essere a sua volta strumento pubblicitario (L’uscita dalle officine è – de facto – uno spot ante litteram). E però oggi mi pare che gli algoritmi privilegino proprio una trattazione del cinema come di un oggetto culturale da “cliccare”.
Così è tutto un florilegio di “film più spaventosi di sempre” e di altre esagerazioni (TikTok ne è pieno) che portano, quasi sempre, ad articoli o notizie del tutto privi di effettivo contenuto. L’hype, come si dice oggi, edificato su fondamenta di sabbia. Lato produzione, poi, si è sempre più costretti a girare film che si prestino a questo tipo di “ripiegamento”, a essere funzionali al clickbait, con conseguenze di dubbio gusto nell’economia generale delle opere stesse (nelle quali si notano, sempre più plasticamente, i momenti pensati per essere “clippabili” e “cliccabili”).
Si è parlato in tempi non così lontani di infodemia, come forma di degenerazione di quello che in letteratura è stato spesso descritto come overload informativo. Troppe notizie, troppe voci, spesso inconsistenti, inutili, mediocri. Forse è il caso di iniziare, nell’era degli algoritmi, a parlare di overload informativo di settore, che va al di là dell’invasione generalistica delle “notizie”, e si diffonde capillarmente contaminando i nostri interessi, le nostre opinioni, le nostre passioni.

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