Lamæntinus

Cose di cui francamente nessuno sentiva il bisogno

Non molto tempo fa un ragazzo ha ucciso una ragazza. Una tragedia inenarrabile, eppure estremamente narrata. Una vicenda ineffabile, su cui pure fiumi di parole sono stati versati. Quasi tutte oscene, spropositate, scomposte. Una storia che, rispetto ad altre, aveva tutti gli “ingredienti” giusti per farsi strada nel nostro immaginario: un delitto passionale, due protagonisti giovani, una fuga. Il cinismo indecente dei mezzi di comunicazione non poteva che trovarla ghiotta.

Attorno a questa storia è stato eretto un edificio retorico abnorme. Tutti si sono precipitati a dare spiegazioni. Per la sociologia meno illuminata si è trattato di uno squisito delitto di gelosia. Per la clinica più miope è stata pura follia. Naturalmente, la verità sta nel mezzo, comoda, sapendo di non poter essere afferrata.

L’assassinio porta con sé un mistero irriducibile (Ausdruckslos), ma pure ci chiede di essere interpretato, a gran voce. Così questo assassinio è stato il pretesto per provare a (pro)porre una serie di giusti esami di coscienza, anzitutto al genere maschile, mediati però attraverso una forma di massimalismo che continua a non convincermi. Sono, siamo tutti colpevoli? Di cosa? Come? A che pro trattare la materia così? Ma non è questo il tema di oggi.

Il tema di oggi riguarda quanto avvenuto negli scorsi giorni. Quando L’assassino è stato condannato dalla Corte d’assise (che, più prosaicamente, è l’organo giurisdizionale che entra in gioco quando ci sono casi gravi come quello in oggetto).

Ergastolo. Per lui una pena esemplare. Ergastolo si traduce con l’espressione nota un tempo: fine pena mai. Una parola pesante, incontrovertibile (pur considerando potenziali sconti di pena). Un ragazzo, di poco più di una ventina d’anni, passerà il resto del suo tempo vitale (o buona parte di esso) dietro le sbarre. Anche se è un assassino, è un esito triste. Se sia un esito giusto, io su questo non mi esprimo. La giustizia, in uno stato di diritto, non sono io. Non ho nessun diritto io di discettare su cosa sia giusto o meno in questa sede. La pena è stata comminata, dopo un processo, e tale è. E sicuramente non restituisce la vita di una giovane donna, spezzata brutalmente.

Certo è un esito esemplare, su cui ha pesato in qualche modo la rabbia dell’opinione pubblica. E qui veniamo al delicatissimo punto del giorno: al colpevole, come sapranno i miei lettori, non è stata attribuita l’aggravante della crudeltà, nonostante il numero cospicuo di coltellate inferte. Sulla sentenza si legge che questa scelta è stata dovuta alla “inesperienza” del suddetto. Con che coraggio masse di persone si mettano non solo a sindacare, ma anche a giudicare questa sentenza, mi fa impressione.

Apriti cielo, i social si sono scatenati. In pochi, quasi nessuno, hanno provato a obiettare che il linguaggio giuridico ha delle sue specificità e una semantica precisa. Ha vinto la spirale del silenzio, alla quale scelgo di non sottomettermi. Non sono un giurista, ma sono un cittadino, e in quanto tale mi preme di sottolineare alcuni punti.

– Se vale ancora qualcosa, in un mondo dominato da buzzurri, l’idea del carcere come pena riabilitativa, allora dobbiamo fare lo sforzo filosofico di pensare al concetto di riabilitazione come qualcosa che si applica a casi gravi, gravissimi, proprio come questo. L’alternativa è la pena di morte, quella della sala con la vetrata da cui potete guardare comodamente seduti negli USA. La civiltà di una società si misura nella sua capacità di mantenere saldo questo principio, che altro non è che conseguenza concreta di un’idea che andiamo perdendo: quella che i colpevoli sono tali, ma mantengono dei diritti.

– Provare empatia verso le vittime è più facile che farlo per gli assassini, di solito. La ragazza uccisa in questo caso è stata strappata via al mondo in maniera atroce, povera lei. Il suo nome non lo faccio qui e non l’ho fatto altrove, per profondo rispetto. Non ho intenzione di partecipare a un teatrino che aborro. Ho fatto quello dell’assassino nel titolo, perché il suo nome – così si è barbaricamente deciso – è di pubblico dominio in quanto sinonimo del Male. E tuttavia in questa storia non c’è un’unica vittima. Ci sono molte vittime, e una di queste è proprio l’assassino, la cui vita – propria e dei suoi cari – è stata (da sé) irrimediabilmente rovinata. Questo, checché ne vogliano i rabbiosi in cerca di punizioni, è un dato di fatto. L’assassino è vittima di se stesso, ma pur sempre vittima.

– Se l’assassino ha ancora un barlume di coscienza, da qualche parte, allora passerà il resto dei suoi giorni a tormentarsi, che mi sembra non poco. Se non ha alcun barlume di coscienza, allora è patologico. In ciascuno dei due casi, accanirsi nei suoi riguardi è una forma di violenza (infierisci o contro chi già da sé si sta fustigando, o contro chi è malato). Tertium non datur.

– Prendersela con l’assassino, sottoporlo a un linciaggio mediatico che è pura pornografia, è una faciloneria etica e una mossa ipocrita. A poco o nulla serve. Diverso sarebbe “usare” l’accaduto per porre in essere una riflessione, anche scomoda, anche convocante, di ordine sociale e culturale. Mi sembra però che in questo caso non sia andata così, o solo in parte.

– La tenuta della nozione di diritto si misura proprio attraverso i casi che assumono un carattere di “esemplarità”. Qui mi pare che la vox populi abbia deciso come segue: punirne uno per educarne cento. Ma questo è molto lontano da un’idea sana di diritto.

– Infine, la mancata aggravante, il casus belli: il ragazzo ha ottenuto l’ergastolo. Non mi sembra che ci siano andati leggeri. Eppure questo per la stragrande maggioranza dei commentatori non è bastato. Passino le considerazioni dei famigliari della vittima, cui possiamo conferire una sorta di lasciapassare emotivo. Ma agli altri mi viene da dire: cosa volevate, cosa volevi, dunque? Cosa ti avrebbe placato? Quale grado di forzatura del diritto avrebbe saziato il tuo livore? E cosa speri che facciano ora le tue pressioni?

Vuoi che l’assassino si impicchi? Vuoi che lo ammazzino in carcere? O preferiresti che fosse legato e appeso in una piazza, per farne pubblico scempio? Con che orrenda facilità siamo arrivati a piegare il diritto e l’umanità per soddisfare solo le nostre più effimere pulsioni.

E quando l’assassino sarà morto, morta la vittima e morto il carnefice, ristabilito l’equilibrio universale nella morte, potrai dirti soddisfatto, o ci saranno ancora la sua salma prima e la sua tomba poi da castigare?

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