Non era ancora uscito nelle sale, che già le home page di YouTube e i canali “cinefili” di TikTok traboccavano di contenuti su tutte le citazioni “nascoste” o addirittura “segrete” di The Substance. I thumbnail mostravano una serie di “parallelismi” iconici, e le forme della neo-critica online, espresse da influencer e content creator, si sperticavano nel tracciare la filogenesi dell’opera di Coralie Fargeat, che quindi si dava come particolarmente promettente.
Promesse, naturalmente, tradite. The Substance è sterile ben oltre il voluto, e anche sostanzialmente “sbagliato”. Ma questo, qui, mi interessa poco. Quello che mi interessa è il suo involontario configurarsi come un trattato teorico sullo stato dell’arte del cinema contemporaneo, in cui l’oggetto-film gioca solo una parte, e forse non quella centrale. Quindi, a voler essere semiotici, induce a chiedersi qualcosa sullo statuto del testo cinematografico, come architettura semiologica complessa ove paratestuale e testuale si mescolano in un intrico il quale, lato fruizione, assume l’aspetto proteiforme della cosiddetta “esperienza cinematografica”. In fondo è la domanda di sempre, di baziniana memoria, ma aggiornata all’odierno: dunque, che cos’è – almeno oggi – questa cosa che chiamiamo “cinema”? Per capirlo, torniamo a quei contenuti online dedicati a The Substance. Perché la grandezza del film di Fargeat è un falso estetico e storico, eppure come tale, con la supponente nomea dell’opera imprescindibile, il film si diffonde, per via di una fitta tramatura esegetica circolante nel mediascape, che della stessa esperienza del film fa parte.
“Quella scena cita proprio Shining!” – “Quell’altra è Cronenberg, Brundle-Mosca!” – “Ma dai, è proprio come (in) Psycho!”. Sicuramente The Substance ha dalla sua la conformazione di un Frankenstein filmico. La qual cosa parrebbe particolarmente compiacere lo spettatore contemporaneo. Questi infatti non vede l’ora di poter, più che conoscere, riconoscere. E però, va detto, parliamo di un’operazione quantomeno facile. Shining, La mosca, Psycho, sono tutti capolavori indiscutibili, ma anche sono oggi testi mitizzati, frammentati e iper-inflazionati: memizzati. Più facile imbattersi in una t-shirt o in un Funko Pop di Jack Nicholson nei panni di Jack Torrance, vederne dei mash-up online, che non rivedere (se non vedere proprio per la prima volta!) il film di Kubrick per intero.
Questo è il cinema o il post-cinema contemporaneo: un’esperienza frammentaria e frammentata, piegata alle dinamiche del cosiddetto high concept, non solo transmediale, né esclusivamente intersemioticamente tradotta, ma destinata a una eterna mutilazione. Si badi bene: nessun giudizio qui, nessuna ingenua presunzione di sacralità del film in quanto testo da preservare in una sua supposta unitarietà, ma semplicemente una presa d’atto.
Quel che però va sottolineato è che questo godimento precipuo, del riconoscere il riferimento, è molto più eloquente delle velleità pionieristiche di The Substance. Perché il pubblico ama riconoscere il già noto, avere conferma dell’intelaiatura intertestuale, che da strumento, da mezzo, è diventata fine, come dimostrano i più grandi successi degli ultimi anni, così come la stessa generale direzione assunta dalle grandi produzioni hollywoodiane (dal Marvel Cinematic Universe a fenomeni come Barbie).

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