Lamæntinus

Cose di cui francamente nessuno sentiva il bisogno

Non saperne (e non essere) mai abbastanza: Sulla sindrome dell’impostore

Che poi, chi sono io per scrivere ciò che scrivo?

La sindrome dell’impostore è un male o un bene? Difficile rispondere. Intanto vale la pena di definirla, anche se negli ultimi anni sembra essere entrata nel linguaggio comune, almeno di certe specifiche bolle.

L’impostore è colei o colui che si finge altro da sé, cioè che assume i panni – dolosamente e con l’inganno – di qualcuno, allo scopo di trarne vantaggio personale. “Quello è un impostore!” si esclama nei romanzi o nei film quando ci si avvede che la persona che si credeva amica è in realtà un nemico sotto copertura, che approfittando del suo camouflage ha raggirato, irretendoli, i buoni. Si può essere impostori sia impersonando qualcuno di specifico (fingersi una persona nota) sia assumendo ruoli che non abbiamo il titolo di assumere (fingersi un medico, un avvocato e così via). Bram Stoker, sì, quello di Dracula, ha scritto nel 1910 un testo dal titolo Famous Impostors.

Naturalmente la vicenda è, come sempre, più sottile. Siamo tutti, o quasi, sempre un po’ impostori, dal momento che come ci hanno insegnato alcune teorie sociologiche classiche (penso al noto “modello drammaturgico” di Goffman, per esempio) stare nella società è un po’ come stare in un palco, recitare una parte, costantemente. E ogni qualvolta si recita si sta in effetti facendo un esercizio specifico di impostura, convincendo gli altri di essere qualcosa o qualcuno che non si è.

La sindrome dell’impostore è dunque un fenomeno psicologico e sociologico specifico, in cui si attiva una sorta di interiorizzato apparato etico e socratico, che ci avverte di stare attenti. Che ci fa sentire fuori luogo, nel luogo in cui pure avremo titolo di stare e di esercitare (la famiglia, la scuola, il lavoro). Chi fa un certo tipo di professioni, in cui è richiesto di mostrare costantemente competenze specifiche, ne è più affetto. Lavorando all’università la sindrome dell’impostore è all’ordine del giorno. Significa sentire di non meritarsi di stare dove si sta, di non saperne mai abbastanza. E questo è, paradossalmente, un bene e un male. Un bene perché in qualche modo costituisce il contraltare a potenziali eccessi di ego, sempre dietro l’angolo. È importante ricordarsi che, per quanto se ne sappia, se ne sa sempre poco, e il nostro diritto di stare sul pulpito è molto limitato. In questa consapevolezza c’è la benzina necessaria per continuare a provare ad apprendere. Dico apprendere e non migliorarsi, perché lì invece risiede l’aspetto più osceno della sindrome dell’impostore, che altro non è che una delle ennesime manifestazioni dell’attuale conformazione della società – mi scuso per l’aggettivo che sto per adoperare – neoliberista.

Bisogna migliorarsi sempre”. Questo uno dei mantra che ci scuotono quotidianamente. Sarà poi vero? E in che senso? Perché il sospetto è che la trappola sia quella di venire gettati in un baratro, perennemente fallimentare, di ipercompetizione. Sapere di non saperne mai abbastanza è cosa giusta se è motore propulsivo a una costante volontà di scoperta. Se invece che alla curiosità si cede il passo in favore di una frenetica corsa, fosse anche contro noi stessi, ecco allora che la Sindrome ci trasporta in un circuito vizioso, assolutamente deleterio. E, beninteso, da quel circuito non ne usciremo mai. Anche dopo aver vinto il Nobel continueremo a pensare che in qualche modo “li abbiamo fregati”, ma presto si accorgeranno che non siamo poi granché.

L’esatto opposto della sindrome dell’impostore è forse quello che è noto come effetto Dunning-Krueger, per il quale chi è poco esperto in una materia, per ragioni varie, tende a sovrastimare le sue competenze. Questo effetto, oggi noto credo soprattutto per via dell’essere stato citato qualche anno fa in una canzone dei Pinguini Tattici Nucleari, viene menzionato da chi si crede colto per additare chi costoro credono incolti. Così in qualche modo ricadendo nel circuito competitivo, nel quale il sapere – questa misteriosa e proteiforme chimera – alla fine è uno strumento utile, alla fine dei conti, a prevaricare l’altro. Scrivevo qualche tempo fa: la cultura usata come arma. Orrendo.

Io spesso soffro di sindrome dell’impostore, e mi rendo conto tuttavia – con un minimo di sforzo empatico – che lo stesso vale anche per chi ho attorno a me. Dunque il re è nudo, e più in generale, al di là di sindromi e di impostori, ci racconta di un mondo ove “sentirsi abbastanza” è diventato molto complicato.  

Lascia un commento