Il lavoro può essere molte cose. Sfidante, usurante, stancante. Lavorare stanca, suggeriva nel 1936 un sempre efficace Cesare Pavese. Può servire per vivere o essere necessario per sopravvivere. Può realizzarci o contribuire a darci gli strumenti per realizzarci altrimenti. Può essere utile o, come sempre più spesso accade, inutile, ritorto su se stesso, ombelicale, funzionale solo a giustificare una posizione specifica in seno a una organizzazione. Il lavoro è una prassi necessaria, plurivoca, e sempre più spesso problematica.
Alle soglie del 2000, in tempi già parzialmente sospetti, Richard Sennett pubblicava il suo L’uomo flessibile, che sarebbe poi divenuto uno dei testi fondativi di una specifica prospettiva sulla globalizzazione. Il volume ci metteva in guardia, proprio negli anni della cosiddetta bolla delle Dot-com: il florilegio di opportunità rappresentate dalle inedite geografie culturali ed economiche di un mondo che si globalizza è preludio a un minaccioso spettro, che rischia di avere effetti deleteri sulle persone. Aveva, a mio avviso, ragione, e un intero programma di pensiero è scaturito a distanza di un quarto di secolo dalle sue pionieristiche speculazioni. L’essere come progetto di Heidegger, se eteronormato, diventa autofagocitarsi.
Il problema enorme del lavoro contemporaneo è che esso, sempre di più, si sovrappone con la nozione di malattia. Ci si ammala di lavoro, in molti modi. Lo sanno bene coloro i quali – in Italia ne sentiamo spesso parlare – contraggono mali gravi per prolungata esposizione in ambienti lavorativi malsani. Lo scandalo quotidiano delle morti bianche ne rappresenta solo l’ultimo estremo. Dall’altro lato, in maniera meno evidente, c’è uno stuolo crescente di malati sul/di lavoro la cui voce è più complicata da intercettare.
Ammalarsi di lavoro significa, in buona sostanza, che il lavoro ha assunto nella nostra esistenza un valore nuovo, coincidente con un deragliamento semantico. Ci ha in un certo senso avviluppati fra le sue spire, secondo formule che in parte hanno trovato un nome (i famosi workaholic, ad esempio), e in parte invece sono in attesa di essere battezzate in qualche modo. Ammalarsi di lavoro significa anche non avercelo, e, vuoi per oggettive ragioni di sussistenza, vuoi per pressione sociale, patire la ricerca di una nuova posizione come un dramma definitivo. Ammalarsi di lavoro significa pure avercelo, ma sotto condizioni scarsamente accettabili o del tutto inaccettabili, facendo compromessi quotidiani e man mano vedendo rosicchiati i propri diritti, sottoponendosi a leadership tossiche e strutture disfunzionali, subendo demansionamenti, umiliazioni, vessazioni e varie altre forme di mobbing. Il mobbing è una bestia strana, mutaforma, difficile da catturare, eppure infida e più diffusa di quanto pensiamo. Ammalarsi di lavoro significa, ancora, avercelo ma in qualche modo, per cause ineffabili, patirlo, sentirlo come un sopruso. Se torni a casa da lavoro non stanco (felicemente stanco, fisicamente stanco o psicologicamente stanco ma di una stanchezza giusta), bensì con ansia, con le lacrime, prostrato, coventrizzato, allora è probabile che tu ti stia ammalando di lavoro.
Gli equilibri di potere in gioco in un rapporto lavorativo oggi sono ben più complessi di quelli novecenteschi. Non è più solo in campo la classica dialettica hegeliana schiavo-padrone, ma un apparato asfissiante in cui con lo stesso vigore operano enormi e scarsamente visibili sistemi di sollecitazione, i quali – beninteso – agiscono a tutti i livelli (dal dipendente all’imprenditore). Il lavoro, nel mezzo, articola relazioni fra persone le quali, in ultima istanza, per evitare che ci si ammali, devono a mio parere agire tenendo saldi due princìpi: il diritto al/del/nel lavoro, da un lato, che esiste e di rado viene rispettato, e la sensibilità umana, dall’altro, che è invece un fatto etico, che possiamo intendere come un certo modo di interpretare la dimensione normativa. Il felice e utopico connubio fra questi due elementi, i quali in fondo sono tutt’uno, sarebbe una ottima cura contro la malattia del lavoro.
Per chi controbatte sostenendo che sono tante belle parole, ma che il problema è politico, sistemico, più alto, e che quindi è impossibile stabilire un rapporto di lavoro senza contemperare delle forme di sfruttamento o di autosfruttamento, purtroppo viene da rispondere che costoro hanno ragione, ma io non ho torto. Hanno ragione nel sostenere che il problema è sistemico, e che ha a che fare con l’aggressività del capitalismo contemporaneo, il quale stabilisce un gioco la cui prima regola, per entrare a farne parte, è quella di sviluppare una coscienza cannibale. Ma io non ho torto, nel richiamarci alle responsabilità nostre, di singoli facenti parti comunità, non di monadi. Responsabilità che ci convocano in prima persona, chiedendoci di provare, come possiamo, a lavorare bene, evitando che il nostro lavoro diventi cagione di malattia (per gli altri, o per noi stessi). Una missione delicata, difficilissima, ma vitale.
Scrive benissimo nel suo fondamentale Germinale Émile Zola (1885): “Le cose si reggono tutte a vicenda, basta una scossa lontana a scuotere il mondo”.

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