Lamæntinus

Cose di cui francamente nessuno sentiva il bisogno

Lost Things – Su un film piccolo piccolo

“Nessun uomo è un’isola”, come dice mi pare lo slogan di un supermercato, ma pure un saggio di Thomas Merton, ma pure John Donne, ma pure…

Il cinema australiano contemporaneo è foriero spesso di scoperte felici. Sembra, in ogni caso, molto interessato a esplorare la vastità del proprio suolo, che assume spesso caratteri perturbanti. Guardate film come The Rover (David Michôd 2014), o la breve saga di Wolf Creek (Greg McLean 2005) e ne avrete subito riprova. L’Australia è una terra ammantata di un fascino specifico, quello di un mondo selvaggio e in qualche modo non del tutto “catturabile”. Picnic ad Hanging Rock (Peter Weir, 1975, tratto dal mitologico romanzo di Joan Lindsay) resta ad oggi uno dei miei film preferiti.

Ma oggi parliamo invece di un film più piccolo, Lost Things, una produzione indipendente del 2004 diretta da Martin Murphy, e che mi pare abbia diversi meriti, fra i quali quello di rispondere con intelligenza, in anni caldissimi, al profluvio di teen horror party quel che vuoi movies americani. Due giovani coppie, nella delicata età in cui si passa dal college all’università (i favolosi ed emblematici 19 anni), decidono di trascorrere un weekend in una desolata spiaggia australiana. I maschietti ci portano le due fidanzatine con la scusa di fare surf, ma è evidente l’obiettivo ultimo, così evidente da non doverlo scrivere. Qui, però, incontrano uno strano e sporco tizio di nome Zippo, e le cose degenerano (o, nomen omen, si infiammano, ihihih).

Ora, niente di più, ma poteva andare molto peggio. La recitazione è a livelli decisamente bassi, ma quel che regge il film è la svolta metafisica, inaspettata e repentina, che assume nell’ultima parte. Capiremo infatti che al di là del temibile Zippo, che tratta i ragazzotti fra il serio e il faceto, scompare e riappare fra le frasche a piacimento, e così via, quel luogo non è quanto sembra.

La sterminata spiaggia australiana assurge quindi a soglia, nel senso più astratto del termine. La spiaggia è sineddoche della nazione tutta, intesa come un luogo scarsamente colonizzato, ancora selvaggio, non perfettamente addomesticabile. Tanto che è disseminata di vipere, serpenti che rappresentano l’ineluttabile indomabilità della natura, cui nulla può il tentativo di appropriazione culturale umana. Ecco allora che il film vira, in maniera drastica, dallo slasher movie al thriller filosofico. I ragazzi si trovano intrappolati in uno strano loop, il killer è ineffabile, i segreti riemergono, e nulla è come sembra. Sul finale poi una parziale rivelazione, che ci conferma quanto oramai sospettavamo.

C’è in Lost Things, compresso nei mezzi poveri di un film low budget, una intera estetica dell’isolanità. Erano quelli gli anni dell’exploit di LOST, che, volenti o nolenti, pur con tutti i detrattori del caso, resta una pietra angolare nell’ambito della serialità audiovisiva. Nel film di Murphy tuttavia è proprio per la scarsità di risorse produttive a far pulsare l’opera con particolare forza. Un’opera lenta, criptica, a tratti incoerente, non legata alle necessità di una continuity strenua, quanto piuttosto tesa a darci dell’esperienza del limine, del mistero del confine fra vita e morte. Un’opera che assume uno sguardo definibile come quasi “lynchiano” (mi vergogno un po’ a indulgere in questo abusato aggettivo, che vi chiedo di interpretare con beneficio di licenza).

Difficilmente capiterà nei radar degli spettatori medi Lost Things. È un film piccolo, poco rintracciabile, relegato al fondo dei cataloghi. Eppure, se doveste imbattervici, potrebbe regalarvi una discreta ora e mezza, a patto che siate disposti a uscire dagli schemi della patinatura delle grandi produzioni contemporanee.

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