Lamæntinus

Cose di cui francamente nessuno sentiva il bisogno

Non esistono gli unicorni?

Ogni qualche anno riemerge la mia fissa per gli unicorni.

Cavalli, alle volte alati, dal crine niveo, magici in qualche misura, senz’altro provvisti di corno. L’unicorno è più antico di quanto si possa pensare oggi, nell’era dell’eterno appiattito presente. Non che, eccezion fatta per la magia, debba essere poi una bestia tanto improbabile. In fondo di cavalli bianchi se ne contano molti nel mondo, così come di animali alati (anche mammiferi), e pure di cornuti. Se accettiamo di buon grado l’esistenza del narvalo, e abbiamo imparato anche – ricordando con affetto Umberto Eco – a dare per vero l’ornitorinco, perché mai consideriamo fantastico l’unicorno? Perché, banalmente, non esiste, almeno al di fuori del nostro immaginario.

I bestiari antichi ne parlano come di una creatura esistente, così come Giulio Cesare parla degli uri, bovini senza giunture, nel De bello gallico (ma questi esistettero e poi si estinsero), o molta letteratura fantasy ci racconta dei draghi, a loro volta tutto sommato ammissibili. E però l’unicorno, ce ne dobbiamo fare una ragione, non è né il rinoceronte lanoso di cui discorre il Nordisk familjebok, enciclopedia ottocentesca svedese, né l’orice araba. Il suo habitat è di altra ontologia: quella dei miniatori medievali e dell’araldica, e anche quella di Terry Brooks e di My Little Pony. Da simbolo di inscalfibile purezza l’unicorno, prima ornamento degli stemmi di nobili casate, è stato come tutto risucchiato nel calderone del postmoderno, uscendone glitterato e cute.

Si penserà: sempre tuttavia relegato nell’altrove, nel deposito dell’immaginazione collettiva, assieme ai leprecauni. E invece oggi, quando finzione e realtà si approssimano, gli unicorni, che intanto hanno imparato a secernere arcobaleni (da quale orifizio meglio non chiederlo ai produttori dello Squatty Potty), esistono un po’ più di prima. Ce lo hanno insegnato la Algida e il suo Unicornetto, gelato di cui si trovano tracce online nel mercato thailandese, che si promette al sapore di unicorno. Naturalmente non quello polveroso degli araldi, ma quello patinato dei cartoni.

L’unicornetto si presenta come un cornetto Algida dai colori seducenti: lillà e celeste, sormontato di pepite rosa e ocra al cioccolato, provvisto anche di un topping ai frutti rossi, ché l’esotismo del palato vuole la sua parte. La sinestesia, ponte semiotico fra una sensazione (il gusto) e l’altra (la vista), fa il resto. La sinestesia oggi vende. Se anche gli unicorni non esistono, le loro immagini esistono eccome, e così l’universo di valori e sensazioni ad esse associati. E allora, a fare gli accademici, l’Unicornetto non è al sapore di unicorno, ma al gusto fantasia, forse più facile da assaggiare che non da definire. A fare invece i precisini è vaniglia con coloranti. A fare gli animalisti c’è ben da discuterne, se sia un passo avanti o cinque indietro quello di cibarsi di alimenti che si presentano come fatti di animali inesistenti (quando già ce n’è a bizzeffe di prodotti fatti invece con animali esistenti). A fare gli ontologi è un problema, e cioè se siano gli unicorni a esistere più di prima, o noi a esistere di meno.

I più avveduti diranno che è storia vecchia, pensando alla gelateria sotto casa che da anni propone il gusto Puffo; i più coraggiosi avranno già fatto il passo oltre, e ordinato su Amazon una lattina di squisita carne di unicorno, “Magic in Every Bite!” come dice l’etichetta. Costava, mentre scrivevo queste righe qualche tempo fa, intorno ai 50 Euro (per 156 grammi). Non è poi tanto se lo paragonate al prezzo di un buon filetto di minotauro.

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