La categoria di istant movie non è particolarmente frequentata in seno agli studi accademici. Essa designa produzioni cinematografiche il cui soggetto è di solito ispirato a un fatto così recente da non fornire il tempo necessario per un’architettura (narrativa e formale) particolarmente elaborata. D’altro canto, tuttavia, il mondo contemporaneo è dominato dalla logica – di fatto intendibile come una forma di vita – dell’istantaneo e, di conseguenza, dell’estemporaneo.
Purtroppo ciò vale anche nell’ambito accademico: fioccano gli instant books, secondo la formula dell’intervento sul tema scottante, cui prestano le loro forze metodologiche e intellettuali studiosi che, non avendo avuto il tempo di ragionarci a fondo, produrranno bozze di pensieri semi-strutturati, ardimentosi giochi di parole e di collegamenti, destinati a perdersi nell’oblio. Così è, in fondo, previsto dallo statuto stesso dell’istantaneità intesa come metodo: essa non ambisce alla memorabilità, essendo monodimensionale (come l’uomo di Marcuse), esibendo la sua mancata volumetria. Il contemporaneo in questo senso è luogo di un pensiero non volumetrico, in cui l’eterno presente paventato dal postmodernismo come forma di appiattimento del passato su un’unica superficie senza increspature degenera al rango di un insieme di monadi disordinate e morenti nell’atto stesso di nascere. Sono bastati pochi mesi di pandemia di Covid-19 per vedere traboccare i database accademici di illuminate riflessioni su un tema il quale ha accomunato tutti. Riflessioni oggi già dimenticate, esaurite, arrivate al termine ultimo del loro sfruttamento cognitivo nel momento stesso in cui venivano pubblicate.
Se nella società postmediale, per dirla come Ruggero Eugeni, contemporanea la vulgata tende a magnificare la mancanza dell’ossatura di un qualsivoglia metodo, in forza di una logica in cui ciò che conta è il fluido e resiliente tessuto connettivale delle informazioni, laddove queste sono sempre più il risultato di rigurgiti del momento rischia di non rimanere nulla se non la cartilagine stessa, un grumo morto.
Contenuti, contenuti dappertutto, content creator è la locuzione del momento, eppure tali contenuti appaiono come forme involute di un pensiero che spesso fatica a uscire dalla dimensione stessa che lo ha prodotto. Su internet, nel vischioso vociare che sempre più intrappola anche gli stessi accademici, non si fa che parlare di internet (come vi ci si deve comportare, le parole da dire e da non dire, le onte che lo attraversano). Le discussioni si conducono nell’autismo di un medium che impedisce di volgere lo sguardo ad altre fonti. Ogni domanda nasce in seno al web, e ogni risposta esiste solo in quanto riarticolazione del web stesso, in una ritorsione ombelicale. Vince, in questa parodia di un agone, chi meglio si appropria del metalinguaggio, chi più da sfoggio di proprietà retorica, anche se – di nuovo – di una retorica depotenziata si parla, nell’ambito di diatribe il cui scopo plateale e unico è la capitalizzazione del conflitto stesso (in termini economici, o di status, e quindi nuovamente economici).
L’idea stessa di un’estetica dell’istantaneo è già problematica, ma può pure avere una propria dignità. D’altronde le analisi sugli schizzi di Pollock e gli squarci di Fontana ci servono proprio per debellare quello sconcio pregiudizio per il quale “possono farlo tutti”. Dietro a opere, che poi sono perlopiù operazioni, apparentemente semplici, e, quel che ora ci interessa, veloci, istantanee tanto da invitarci maliziosamente a interpretarle come forma provocatoria di otium, sussiste una materialità palpabile del negotium. Tali operazioni sono veri e propri inviti a guardare oltre, ma anche a guardare fra. L’esercizio sottrattivo nelle arti è sempre l’esibizione di una affordance metalinguistica. Una bella ed edotta analisi che Felix Thürlemann fa di Le rouge et le noir di Paul Klee conclude asserendo che: “Le rouge et le noir di Paul Klee è un’opera che si dà come oggetto lo studio di uno dei propri mezzi espressivi. Alla domanda ‘qual è il senso di questi colori?’ il quadro chiede a tutto ciò che non è colore di dare una risposta. Possiamo così considerare Le rouge et le noir come un doppio interrogativo sulla pittura non figurativa: come essa produce senso, e qual è la natura di questo senso?”.
Se è vero che certe discipline hanno la dotazione per analizzare in profondità potenzialmente ogni forma di significazione, c’è da chiedersi come esse si debbano porre di fronte a oggetti in cui la significazione scarseggia, che dietro la superficie mostrano il vuoto pneumatico, e che a leggervi fra, metacomunicativamente, non fanno che ripetere paradossalmente le stesse cose, cioè ripetersi, a vicenda. Si pensi, ad esempio, ai podcast (per esempio quelli true crime).
Questa relativamente nuova forma di emissione, impropriamente spesso paragonata alla radio (quando con essa condivide solo il canale di ricezione, l’orecchio, divergendo invece in termini di registro e, ancora di più, di simultaneità), è oggi ramificata e vive un vero e proprio exploit. Tanto che, di fatto, il termine passa dal designare un oggetto mediale assai specifico – un file audio pre-registrato, su un certo tema, che si può ascoltare quando si vuole – a una serie eterogenea di forme espressive: video-podcast, podcast dal vivo (che quindi assurgono a una dimensione spettacolare), podcast come selezioni rimontate di programmi radiofonici e così via. Attenendoci alla versione più classica del podcast, ecco allora che sul mercato attuale si stagliano due grandi ordini di prodotti. Il primo è quello del podcast strutturato, con una scrittura e una ricerca pregresse, articolato come una modalità specifica di racconto che segue una consona grammatica narrativa, come accade per alcuni macrogeneri come quello, assai in voga, del true crime (la forma del rilassamento contemporaneo fondato sull’ascoltare macabre storie di omicidi mentre si è in macchina o si cucina il seitan). L’altro versante, in aumento, è però quello del podcast invece disarticolato da ogni architettura pregressa; quello conversazionale, nella modalità, poi codificata da Twitch (ci torneremo), come just chatting. Quattro chiacchiere, in un contesto informale, in cui conduttori e, spesso, celebri intervistati, si sbottonano, la sparano lì.
Ecco che prorompe la logica dell’istantaneo, in tutta la sua virulenza momentanea; ecco che la logica conversativa prende di soprassalto quella meditativa, della scrittura, del parlato pensato, retroattivamente, decostruito e ricostruito. Il consumo istantaneo di un prodotto istantaneo. La comunicazione da fornetto a microonde.

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