L’esperienza di visione di un film, checché ne pensino i puristi, non ha mai avuto uno standard unificato. Solo in tempi recenti, ed esclusivamente in riferimento a certe sempre più selettive forme di fruizione (il cinema in sala, oggi di fatto largamente minoritario rispetto al consumo generale di audiovisivi, o il cinema a casa attraverso dispositivi fisici, leggasi dvd o bluray), si è teso a considerare la visione come un atto unitario, delimitato dai limiti del film stesso, sanciti idealmente dai suoi titoli di testa e titoli di coda.
Sarebbe a dire che la complessa azione del “guardare un film” (quella che Bettetini nel 2002 chiamava la conversazione audiovisiva), si sia soli o si sia in compagnia, è stata molto più spesso soggetta a interruzioni, cesure (film iniziati e mai finiti), dilazioni (film visti “a rate”), fruizioni apparentemente incoerenti da un punto di vista temporale (film visti a partire da metà, e poi “ricostruiti” ex post), visioni di parti selezionate (si pensi al florilegio di top ten e altri patchwork disseminati su YouTube), e così via. Anche in un contesto pre-digitale valeva lo stesso principio. I cinefili di una volta sanno perfettamente cosa vuol dire entrare in sala a film già iniziato e poi restare dopo i titoli di coda, per vedere la proiezione seguente e recuperare la parte mancante. Questo tipo di approccio non era di per sé considerato sacrilego, bensì semplicemente possibile.
E, per quanto riguarda la fruizione odierna, va ulteriormente sottolineato un fatto: se già un tempo l’esperienza del film in sala poteva essere soggetta a forme di interruzione diremmo endogene, dovute ad esempio ai tabagisti che con le loro spire di fumo rendevano invisibili certe parti dello schermo a chi era seduto dietro, si immagini oggi, era in cui il cinema è qualcosa che si fruisce a casa, in aeroporto, nella metropolitana, e in un contesto di fortissima dipendenza da costanti stimoli esterni, quanto in realtà quella di una visione perfettamente unitaria sia una chimera. C’è chi guarda i film stando con lo smartphone fra le mani, o ancora lavorando al pc. C’è chi interrompe frequentemente la visione per andare in bagno, per rispondere a qualcuno. La supposta tirannia del film, che pretenderebbe la massima attenzione da chi vi si approccia, è stata sostituita da una sorta di perenne multitasking, figlio del paradigma dell’always on, e questo è un dato di fatto, quale che sia il giudizio di valore che poi si è propensi a dare rispetto a questa considerazione (a me pare, comunque, che indichi qualcosa di problematico).
Quel che accade tuttavia con la sussunzione del cinema all’interno di TikTok rappresenta un ulteriore passo in avanti, in questo contesto postcinematico. Come abbiamo anticipato, e come è bene ribadire, non ha senso intendere il postcinema come un’esperienza di visione che viene dopo il cinema, quanto piuttosto come un’esperienza che rinnova, o tradisce, in meglio o in peggio dunque, i parametri usualmente attribuiti alla nozione stessa di cinema, quelli che potremmo trovare in un comune dizionario al lemma, appunto, “cinema”. TikTok è infatti una piattaforma onnivora che non si limita a prelevare e ritrasmettere, ma che di fatto metabolizza i contenuti all’interno delle maglie della propria struttura interazionale, fornendo in uscita qualcosa di quasi sempre radicalmente diverso da ciò che gli è stato dato “in pasto” in entrata. In parole povere: non ci si aspetti di poter vedere un film su TikTok come lo si vedrebbe in sala o su Netflix. Questo è impossibile, per motivi strutturali (durata, formato, contenuti consentiti etc), e per motivi legati alla pratica “adoperare TikTok”, che per l’utenza semplicemente è qualcosa di diversa da “guardare un film” (sebbene poi frequentemente si traduca nel fruire di parti film). Così diversa, e così totalizzante, che i video su TikTok non si chiamano “video”, ma appunto “tiktok” (“ti invio un tiktok divertentissimo che ho visto stamattina!”).
Questo è un caso tipo in cui la disposizione strutturale (crasi fra architettura della piattaforma e architetture del suo utilizzo nella società) si riversa sui nostri modi di appropriazione estetici, etici, e ideologici della realtà.

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