Lamæntinus

Cose di cui francamente nessuno sentiva il bisogno

Red flag e green flag: una società semaforica?

I modi di dire sono modi di fare.

Con davvero poca attenzione – almeno per la gran parte dei parlanti – adoperiamo il linguaggio. Con ancora meno premura ci curiamo di capire cosa significano, sotto sotto, i modi di dire che con grande virulenza subentrano nel nostro esprimerci. Li adoperiamo come se fossero neutrali, o – orrore massimo – allo scopo di mostrarci trendy. Dall’altro lato, se ci permettiamo di dire che una cosa ci triggera (cioè ci “innesca”, che comunque a me pare un modo più evocativo di esprimere il concetto), qualcuno stiamo pur certi che insorgerà per rimbrottarci circa la nostra presunta esterofilia linguistica.

Al di là di questo, i modi di dire (da qualsiasi lingua provengano) che interiorizziamo culturalmente non sono dei semplici strumenti per esprimere determinati concetti, ma spesso modificano le geografie stesse del nostro panorama cognitivo e sociale. Penso, oggi, al diffondersi rapido e inarrestabile dell’espressione “red flag“. Sarebbe il vecchio e famoso campanellino d’allarme, solo che reso in maniera abbastanza brutale: laddove c’è un segnale rosso, quantomeno nelle culture occidentali, significa che di lì non si passa. E ciò è fondamentale. Si tratta di un segno che deve essere potentemente interdittivo, per la nostra sicurezza. Come il teschio sui cavi dell’alta tensione delle ferrovie, che deve dirci chiaramente di non toccare, se non vogliamo restare folgorati.

Non è dunque sbagliata di per sé la nozione di red flag. Il problema è il portato metaforico che ha assunto oggi. Essa infatti non designa più, nel linguaggio comune, un pericolo mortale, ma viene adottata – con una figura di trasporto semantico – nel campo complesso delle relazioni interpersonali e sociali. In questo utilizzo ravviso una inedita ferinità.

Facciamo un esempio: “Quella persona indossa i fantasmini, chiara red flag”. Vi sembra superficiale? Lo è. Ma è questo l’utilizzo attualmente più diffuso della locuzione, specie in alcuni contesti, come le app di dating. Se nel tuo modo di presentarti ci sono certi elementi, allora attento/a, potresti inconsapevolmente produrre delle red flag, e quindi diventare – automaticamente – indesiderabile. L’automatismo è buona parte di ciò che contesto. Ridurre una persona alle proprie calze è una delle derive più oscene della progressiva estetizzazione a-critica del mondo.

Il grosso problema di questo modo di sezionare la desiderabilità non ha a che fare coi gusti dei singoli, su cui non si discetta. De gustibus non disputandum est? Bah, comunque andiamo avanti. Il problema è che alla metafora è sottintesa una idea “semaforica” della società e della socialità, per la quale: 1. Qualcuno si arroga il diritto di definire cosa, o peggio chi è desiderabile, e chi no; 2. Si pretende di ridurre lo spettro complesso e variegato delle relazioni umane a una somma di elementi i quali, comparendo o meno, dicono immediatamente chi sei, senza possibilità di negoziazione alcuna. Producendo quindi forme di ghettizzazione linguistica che possono generare grande dolore.

In psicologia la nozione di red flag è adottata rispetto ad alcuni segnali d’allarme (appunto) che possono incorrere in una relazione. Cose, cioè, che è meglio tenere d’occhio, da attenzionare. Un utilizzo, mi pare, più cauto e operativamente interessante della metafora, che comunque continua a convincermi solo fino a un certo punto (per come sono fatto io le cose sono sempre più complesse). Nel linguaggio comune, invece, come spesso accade (e come in fondo è “naturale” che accada in una società linguisticamente “distratta”), la metafora diventa un modo diffusissimo, una formula intercalare, con un invisibile strascico di conseguenze.

Al di là del fatto che chiunque è ipoteticamente libero di scegliersi come crede i propri partner, amici, compagni di avventure, mi sento di dire che una società che riduce l’altro a una variante semaforica, senza nemmeno prevedere l’arancione (ci sono solo red flag e green flag), va impoverendosi e abbrut(t)endosi, e non poco.

+

Lascia un commento