Lamæntinus

Cose di cui francamente nessuno sentiva il bisogno

Tutto il mondo è paese.

Scrive Guy Debord, nel suo classico La società dello spettacolo, che «nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso».

Globalizzazione è una parola la cui connotazione, negli ultimi anni, è virata verso il negativo. Le conseguenze dei processi di globalizzazione in effetti sono sotto gli occhi di tutti, e hanno un peso non indifferente negli animi di chi ha un po’ di coscienza. Prendere un aereo per un “city break”, per passare un fine settimana in Scozia, è un’attività che cagiona sempre più pensieri. Qual è l’impronta carbonica di un capriccio del genere? Era davvero necessario? E così via.

Ma la globalizzazione non ha avuto solo conseguenze ambientali, bensì anche estetiche. E anche positive. Molti più prodotti culturali ci sono oggi accessibili, con facilità, e il nostro orizzonte di conoscenze si è ampiamente allargato. Il problema è che, tuttavia, in queste facilità di accesso, si annida un serpente velenoso. Tanto è più facile guardare uno show televisivo coreano, tanto più le distanze culturali fingono di abbattersi. E noi veniamo gettati in un miscuglio di piattezza, dove tutto è uguale a tutto, perché: 1. il mercato si è adattato a questa nuova forma di circolazione ubiqua e 2. ci manca la fatica del raggiungimento. Il famoso gusto del viaggio, più che della scoperta.

Fateci caso: oggi sempre più che la meta è proprio il viaggio a essere valorizzato. Come se la meta contasse sempre meno. La meta è più vicina del percorso per raggiungerla, paradossalmente. Così fioccano influencer aeroportuali. Per filo e per segno ci vengono descritte le caratteristiche delle compagnie aeree, le lounge degli aeroporti, i menù a bordo. Non è normale.

Un altro effetto perverso e surrettizio della globalizzazione è nelle nostre città, che sempre più spesso vengono svuotate della loro identità. Le vie centrali, siano esse di Torino, Shanghai o Vancouver, sono dei caroselli degli stessi brand, la qual cosa può consolarci od opprimerci. I processi di gentrificazione fingono di rivalorizzare e invece umiliano e spingono le periferie ancora un po’ più in là. E poi, dulcis in fundo, assistiamo a fenomeni di ibridazione sempre più bislacca, e programmaticamente destinati al fallimento: bar coi gatti, che in Italia sono nati e poi deceduti; barbieri (o barber shop, ché è più cool) dove però puoi bere anche il caffè (che è una cosa che si faceva già dal vecchio barbiere, senza che fosse considerato effettivamente un “asset”); ristoranti che sono anche atelier e compagnia cantante. Forme di ibridazione che germinano da una crisi dell’identità urbana e dalla mitologia deteriore della startup, la quale ci illude che per farcela, in un mondo ipercompetitivo, dobbiamo tutti avere l’idea giusta, imparare a vendere e venderci (il famoso personal branding, espressione di cui diffidare sempre… siete persone o siete marche di balsamo per capelli?). Che dentro di noi, da qualche parte, c’è l’idea che ci farà sbarcare il lunario, quella che nessun altro scemo ha mai avuto. Che ne so: un negozio di prodotti pugliesi dove PERÒ puoi ANCHE fare sedute di yoga.

Ora, che io passi per conservatore non mi fa impazzire, e non credo di esserlo. E tuttavia mi sembra sempre più limpido che questa corsa al nuovo produca dei mostri informi, dietro i quali si celano sacrifici di tempo, energie, denaro, emozioni, all’inseguimento di un sogno sfocato e destinato quasi sempre a schiantarsi contro la ruvidità di un reale crudele e impietoso.

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