Un film come Pet (Carles Torrens 2016) è dichiaratamente destinato a passare inosservato. Fa parte di quello che chiamo cinema “medio”. Cinema cioè non marcatamente autoriale, né spiccatamente di genere. Non un capolavoro, né una perla così trash da ambire al cult. Semplicemente medio, a nutrire quella folta schiera di produzioni disseminate fra le piattaforme di streaming. Un cinema che “fa numero”. Un cinema che fa ciccia, per intenderci.
Ho sostenuto già in alcune sedi, e ho intenzione di farne un discorso più scientificamente solido, che ritengo il cinema medio di grande importanza, e oggi ampiamente sottostimato. Al suo interno si trovano, appunto, film sfidanti, che ci chiedono di essere guardati con un occhio più attento. Film da cui significati interessanti possono emergere, senza che questi siano preventivamente “apparecchiati” da battage pubblicitari enormi, o da un apparato estetico che parla – in un certo senso – da sé. È chiaro, è un lavoro faticoso, e molto cinema medio è per davvero poco interessante. Ma a frugare un po’ qualcosa di buono si può recuperare.
Penso appunto a Pet. Qui abbiamo un Dominic Monaghan, come sempre nel ruolo del cane bastonato (vengono subito in mente Lost e il Signore degli anelli, ovviamente), che rapisce una giovane donna e la chiude in una gabbia. Ci sembra che sia per via di un rifiuto, ma poi scopriamo che in realtà è lei la vera sadica, e i ruoli si ribaltano. Niente di nuovo, mi si dirà, ma il film, specie sul finale, rivela una crudeltà che solo nel cinema medio si può trovare. Se nel mainstream, tendenzialmente, avremmo assistito a un finale conciliante, messo lì per chiudere la baracca (e, attenzione, con conciliante non intendo necessariamente un lieto fine), qui, nel comfort della medietà, è possibile esplorare soluzioni diverse. Ad esempio è possibile proporre un’idea perversa che vede il male come una manifestazione incurabile di certi esseri umani, nonostante tutti gli sforzi, e la tossicità di certe relazioni come un baratro da cui semplicemente non si esce.
Il finale di Pet, se hai ingaggiato con il film un certo tipo di relazione emotiva, ti fa rimanere male. E se sei in cerca di cinema eterodosso, paradossalmente ciò ti fa rimanere bene.
C’è un posto, nel grande empireo del cinema, per i Leos Carax e gli Ulrich Seidl, così come per i pomodori assassini di John DeBello. Nel mezzo, qua e là, timidamente, ci sono dei Pet, gatti randagi addormentati sotto le auto di notte, che aspettano solo le nostre coccole. Che aspettano solo di esser veduti, per regalarci il loro timido miagolio.

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