Essere un lottatore di sumo professionista in Giappone significa essere trattati come una specie di divinità. Il tuo obiettivo, da lottatore di sumo professionista in Giappone, è performare. Questo vale per ogni atleta professionista: la vita diviene il tempo passato a prepararsi, per buona parte, per poi mettere in pratica il proprio allenamento, in parte decisamente più limitata. Quella atletica è una vita in un certo senso monomaniacale, dittatoriale, totalitaria. Devi mangiare in un certo modo, dormire in un certo modo, vivere in un certo modo. La vita stessa è di fatto un ostacolo, un accidente, che si interpone fra te e la performance.
Ma il sumo è un po’ diverso da altre forme di atletismo. Fosse anche solo (e dici poco) perché un sumotori (parola simpaticissima) ha una aspettativa di vita media di 10-15 anni minori rispetto alle altre persone giapponesi (note altrimenti per la loro longevità). E già, perché un sumotori deve ingurgitare enormi quantità di cibo, ad altissimo contenuto calorico, costituendo lo sviluppo di massa una parte essenziale della sua stessa performance. A cui si associa uno stile di vita ad alta intensità – anche, paradossalmente, una intensità del dormire. Fateci caso: avete mai visto un sumotori vecchio?
Un lottatore di sumo mangia, si allena, dorme. Non fa altro. Conduce cioè uno stile di vita tutt’altro che sano, tanto in termini fisici quanto psicologici. Uno stile di vita deprecabile altrimenti, e che invece, nel caso del sumotori professionista, non solo viene caldeggiato, ma anche preservato con estrema cura. Perché un sumotori non si fa da solo da mangiare, e non fa da solo quasi nulla. Viene coccolato come un gatto obeso. E così (non tanto) lentamente ucciso. Si tratta di una perversa forma di cura, una cura strenua, che coincide con un infingardo avvelenamento. Una cura socialmente accettata, nonostante in Giappone il tema della insalubrità del sumo esista, pur se relegato in sordina, da diverso tempo. Su un pezzo della Stampa del 31 agosto 2007 si parla già di come la tradizione del sumo sia in crisi: “un’esistenza sacra e per niente sana”.
Il lottatore di sumo è così emblema di una sacralità che passa attraverso il sacrificio del sé. Come, peraltro, ogni sacralità. Al sumotori si dedica una specifica cura, parola in voga nella filosofia contemporanea, la quale non è necessariamente orientata al suo benessere. Ciò dovrebbe farci riflettere sull’ambiguità stessa dell’istituto della cura, la quale spesso si tramuta nello sviluppo di un’ossessione (legittimata dal presentarsi come cura), o – ancora peggio – nella trasmutazione dell’altro in puro simbolo o status quo, votato all’altare del sacrificio estremo.
Il maniaco che tiene la propria vittima in cantina può anche averne cura, perché la vuole viva, così può soffrire meglio e di più. Il gatto stesso la lucertola che farà morire la tratta con un certo riguardo, in un certo senso venerandola.
D’altro canto, essere nella mente di un sumotori è impossibile a chiunque non sia un sumotori (e, anzi, proprio quel sumotori). Che quella forma di cura venefica che il mondo gli dedica, e che corrisponde a una specie di perenne Grande Bouffe, nel dimezzargli la vita, non ne raddoppi comunque al contempo il significato?

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