Lamæntinus

Cose di cui francamente nessuno sentiva il bisogno

Stephen King prezzemolino

“Quella volta c’era stato, il tipo di incidenti che a quanto pare, a quello stupido incrocio a forma di X, si ripetevano almeno una volta alla settimana”

Se guardi Final Destination 2 (David R. Ellis 2003) noterai che a un certo punto uno dei personaggi, tragicamente condannato a una morte atroce (come tutti gli altri, del resto), legge un libro di Stephen King. Nello specifico Mucchio d’ossa, del 1998. Cosa c’entrano l’autore o il romanzo con il film? Nulla, di fatto (salvo forse la funzione di prolessi che si può attribuire al titolo). E nell’universo di Final Destination non ci sono altre “fughe extradiegetiche”, cioè momenti in cui il film accenni a elementi che lo spettatore riconosce come “esterni” al mondo narrativo. Solo a King è “concesso” questo lasciapassare.

Perché King è un prezzemolino. Il cinema trabocca, specie in quegli anni, non solo di adattamenti kinghiani, ma anche di allusioni, criptocitazioni, e così via, all’autore del Maine. Il solo nome di King agisce come una sorta di metaforica color correction, dichiarando un’appartenenza estetica specifica che in qualche modo suggerisce delle coordinate interpretative. Sarebbe a dire: quando compare il nome di King, allora il film in qualche modo si dice “kinghiano”, cioè non semplicemente horror, ma horror nello stile fascinoso del genitore di Pennywise.

Bisognerebbe in effetti fare un lavoro, che credo ancora non sia stato fatto (e che è un caso di ricerca più difficile da fare che da dire). Capire cioè dove compare al cinema King, come accade in Final Destination 2, a mo’ di prezzemolino. Nel caso del cinema di derivazione manifestamente kinghiana esistono invero numerosi testi. In Italia uno degli ultimi e più completi casi è senz’altro Stephen King: dal libro allo schermo, curato nel 2020 da Giacomo Calzoni. Ma qui non parliamo di film come Cujo (Lewis Teague 1983), Misery non deve morire (Rob Reiner 1990), o le svariate decine di adattamenti che Calzoni riprende. Parliamo di un King “tirato in ballo”, chiamato a tradimento, preso in mezzo. Soprattutto di un King, come dicevamo, extradiegetico, che buca un mondo narrativo altrimenti stagno con la sua presenza, generando un foro da cui percola un intero apparato di aspettative.

A quali altri autori contemporanei (l’aggettivo “contemporanei” è d’obbligo, perché se dovessimo fare con Dante lo stesso giochino non ne usciremmo più), dicevo, a quali altri autori contemporanei è concesso questo privilegio? Quello cioè di vantare un nome – peraltro particolarmente eufonico – considerato come una parte così consolidata delle cultura dal passare da nome proprio a nome comune? Dal poter circolare, liberamente, di narrazione in narrazione, come farebbero la parola “albero” o l’immagine di un elicottero, ma con l’aggiunta di produrre sempre – a ogni comparsa – un risolino compiaciuto nello spettatore?

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