Il cinema oggi è un’esperienza che richiede una certa preparazione. Più di un tempo. C’è ancora qualcuno, raro, che si reca in sala senza aspettative e senza nemmeno sapere che cosa andrà a vedere. È pressoché impossibile, circondati come siamo da stimoli. Questa sarebbe, idealmente, una delle modalità di fruizione del film più auspicabili: la scatola nera, l’appuntamento al buio, da cui può sortire un’amara delusione ma anche l’amore di una vita. D’altro canto, nella contemporaneità il risultato può essere però profondamente frustrante, dal momento che in maniera sempre più programmatica i film si giocano sull’esibizione spudorata di una intelaiatura intertestuale.
Facciamo un esempio. Si può andare in questi giorni in sala a vedere Final Destination: Bloodlines (Zach Lipovsky e Adam Stein, 2025). Non è un caso che questo film sia stato titolato senza l’usuale numerino a seguire, come si faceva fino agli anni 2000 nei casi di saghe. Immaginate di andare a vedere Final Destination 6 senza avere visto i precedenti. Si tratta di un fatto di marketing: non è conveniente titolare i film in sequenza, oggi. Gli incassi ne avrebbero risentito enormemente. Ora, facciamo questo esperimento mentale, non così lontano dalla realtà: immaginate uno spettatore ideale che si rechi dunque a vedere questo sesto capitolo, senza avere alcuna conoscenza del fatto che si tratta a tutti gli effetti di un sequel, se non proprio di un requel. Bene, il risultato sarà quello di una visione mozzata.
Certo, in sceneggiatura si è ragionato per fare in modo che anche chi fosse “vergine” rispetto all’universo di riferimento potesse in qualche modo ricostruirne i fili, ma è innegabile che una parte fascinosa (forse la più fascinosa) del film è proprio nel suo dialogare con i capitoli precedenti: quella che altrimenti chiameremmo retcon (retroactive continuity). Va da sé che, per trarre il meglio da Bloodlines, sia necessario in qualche modo fare un lavoro preparatorio. Ed eccoci tornati all’inizio: all’idea contemporanea di un cinema che richiede non solo un’orditura pregressa, ma un certo tipo di propedeutica. Vuoi davvero godere di Final Destination: Bloodlines? Recupera, prima, i cinque capitoli che lo precedono, possibilmente in modo da arrivare “avendoceli ancora freschi”.
C’è qualcosa di male in questo modo di immaginare il cinema oggi, che lo avvicina in maniera pericolosa alla serialità televisiva? Di per sé no, se non fosse che questo tipo di preparazione alle volte diventa un esercizio, per così dire, totalitario. Perché ci sono altre forme di allenamento che un tempo erano considerate particolarmente importanti, e che pian piano hanno ceduto il passo a questo sistema, per il quale i film viaggiano come piccole galassie autonome, in cui l’unica stella polare è la coerenza della cosiddetta lore.
Penso, per intenderci, a forme di preparazione filosofica, linguistica, estetica, che ci rendano attraenti film giocati nella loro singola autonomia, sfidanti da un punto di vista fruitivo, in cui il piano del godimento è dislocato su un livello diverso dal nesso o dall’organicità nell’apparentamento con altre pellicole.
Ci sono molti modi per prepararsi al cinema. Forse bisognerebbe evitare di fossilizzarsi solo su quelli più comodi, che spesso ci adagiano sull’otium (quando il bello è spesso nel negotium).

Lascia un commento