Lamæntinus

Cose di cui francamente nessuno sentiva il bisogno

Il sublime è un fatto di stile

Elucubrazioni del venerdì pomeriggio.

Nella sua Pervert’s Guide to Ideology (Fiennes 2012), Slavoj Žižek sostiene che il sublime sia di natura costitutivamente ideologica. Questa operazione teorica, attuata a partire da un esercizio di ermeneutica cinematografica, ci porta a considerare il sublime come un effetto di senso, essenzialmente innescato da particolari disposizioni linguistiche, svincolato dalla trascendenza che di solito gli viene attribuita nel pensiero comune e nella tradizione filosofica consolidata.
Lontano, quindi, dal coincidere con la visione romantica del sublime come elevazione mistica a uno stato di propriocezione oltre il significato (un acme sensoriale), il sublime non sarebbe altro che la sublimazione trans-storica di un diffuso sentimento di evasione/piacere, sperimentato attraverso l’esposizione a un testo mediale: la costruzione di un altrove che coincide con quel luogo di proiezione postulato da Musatti, per il quale “i personaggi singoli sono sempre lo stesso spettatore” (1961).

In questo senso, ancora oggi il cinema sembra costituire una macchina privilegiata del sublime, poiché è in grado di proporre una forma vicaria di piacere, sia grazie alle condizioni caratteristiche della sua fruizione (oscurità, grande schermo, isolamento percettivo), sia perché situato in un’ontologia altra e intangibile.
Il cinema, non sostanziandosi mai come “oggetto” – cioè sfuggendo all’oggettualità, da cui il passaggio dall’ontico all’ontologico (Heidegger, cfr. King 2001, p. 46), o dal “cogito al sum” (Borrelli 1999, p. 120) – e attuandosi essenzialmente in un’ontologia speculare che lo spettatore non può abitare, stabilisce il sublime proprio in quello spazio vuoto creato dalla suddetta discrasia: il luogo mentale che connette il film allo spettatore diventa la topologia di quell’alterità estatica che coincide con il sublime nella sua accezione filosofica (Burke 1757, Kant 1790, Schopenhauer 1819).

Tuttavia, questa estensione psicologica deve essere ricondotta alle sue componenti linguistiche; la crasi tra distacco e introiezione non è frutto di qualcosa di magico, bensì il risultato di uno studio stilistico e formale interpolato con un determinato statuto ideologico.
Ne consegue che, in termini assoluti, il sublime non esiste, se non come istante relazionale, semiotico e culturalizzato generato nella relazione tra lettore e testo, e che, nel caso specifico del cinema, è legato a quell’entità – metodologicamente problematica – che di solito chiamiamo “stile”.

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