La tesi è ardita, come ogni buona tesi.
Premessa: c’è chi si scaccola ai semafori, e chi mente.
Anche se la consecutio della precedente affermazione appare un po’ traballante (qualcuno di voi potrebbe legittimamente sostenere che non è vero), interpretiamola come un’iperbole comunque descrittiva di un fenomeno che esiste, è noto e diffuso.
A chi non è mai capitato, in effetti, fermo al semaforo, di girare la testa per assistere a un approfondito scavo nasale? E se non vi è capitato, potete giurare di non essere stati voi, allora, a indulgere nell’attività di carotaggio?
Ma ora il punto: perché sostengo che scaccolarsi è capitalismo, e anzi forse la forma definitiva di capitalismo?
Beh, è presto detto. Nella frenesia della nostra quotidianità, in cui ogni secondo è potenzialmente sprecato se non orientato a una qualche forma di monetizzazione, il tempo del semaforo rischia di diventare un momento morto. Che fare, lì, mentre si attende l’agognato verde?
Ecco allora che, quasi come una forma d’istinto, di spirito dall’alto, di mano invisibile, si manifesta la belva del profitto. Quel tempo non deve essere sprecato, ma può diventare il momento giusto per un po’ di igiene dell’orifizio.
Se osservate gli scaccolatori semaforici, non potrete che notare una comune, assente espressione sul loro volto. Potranno parervi inebetiti, lobotomizzati. Ma quello scotoma che leggete nel loro sguardo vacuo è, in realtà, una forma di ipnosi: una messa in standby dello sguardo che non contraddice, bensì incarna il programma del capitalismo, il quale proprio negli attimi di pausa forzata individua il margine.
Il margine di ricavo, di cui avete letto nei manuali di economia.
Lo spazio del plusvalore.
Ci si scaccola al semaforo perché farlo altrove farebbe perdere tempo prezioso.
Se dotassero i sedili delle automobili di pratici bidet, stiamo pur certi che quella fastidiosa perdita di tempo casalinga verrebbe felicemente delegata alle code in autostrada. Caccole di tutto il mondo, adunque, unitevi.

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