La meritoria iniziativa di Movie Inspired di riportare al cinema Le onde del destino (e già nelle scorse settimane Dogville e Dancer in the Dark) di Lars Von Trier, 30 anni dopo, va sottolineata. Il film è magnifico, ma se visto in sala, restaurato in 4K, viene ulteriormente magnificato. C’è tutto Lars in quest’opera “giovanile” (aveva, comunque, 40 anni), che vinse il Gran Premio della Giuria a Cannes. Riconoscimento di cui, a dire il vero, non me ne importa nulla. Quello che mi interessa è che, invece, con il cinema di Von Trier sento di avere un rapporto particolare. Non certo esclusivo (e ci mancherebbe), ma ho l’impressione che i suoi film mi parlino, toccando corde e vibrazioni che altrimenti non mi si convocano con facilità.
Le onde del destino è un film intimo e coraggioso. All’epoca fu accusato di misoginia. Accuse, mi si lasci dire, sostanzialmente stupide. Tutt’altro: fra i molti pregi dell’opera c’è quello di essere invece assai critica nei confronti del patriarcato (che così, al tempo, non si chiamava), e di trascendere vieppiù la questione di genere man mano che le due ore e quaranta minuti di visione si sviluppano. Il film è, diciamolo, più problematico di così. Supera senza fretta i limiti della questione identitaria stricto sensu, andando al cuore delle cose, o meglio della Cosa. Come forse nessun altro film del regista ha poi fatto, pur ritornando sugli stessi temi con quell’ossessione tipica di una mentalità geniale e depressa.
Uno degli elementi più convincenti e commoventi del cinema di Von Trier sta nell’evitare ogni forma di manicheismo. Nei suoi film il bene e il male, il giusto e lo sbagliato, non sono schematici. In Le onde del destino il male c’è, ma è “sullo sfondo” (la piccola comunità scozzese che bistratta Bess, non la capisce, la caccia con disonore; i marinai orrendi che la violentano). Il focus, reso con un’infinita serie di primissimi piani, mossi e montati secondo l’editing emozionale tipico del regista, è tutto sui protagonisti. In primis la meravigliosa Emily Watson, che a questo film deve sostanzialmente la costruzione intera della sua carriera. Ma anche Stellan Skarsgård e, non dimentichiamo, almeno Katrin Cartlidge – nel ruolo dell’empatica infermiera Dodo, che incarna una delle forme più emozionanti di sorellanza mai viste nella storia del cinema – e Adrian Rawlins, medico coscienzioso che infine sancisce la vera e unica patologia della protagonista: la bontà.
D’altronde, il film fa parte della cosiddetta “Trilogia del cuore d’oro”, con Idioti (1998) e Dancer in the Dark (2000). Uno più bello dell’altro, ma forse mai all’altezza di questo Le onde del destino, capace di interpretare il pensiero del suo autore oltre ogni cliché. Perché Lars Von Trier, oggi malato, è invero tutt’altro che un provocatore sadico, come molti hanno voluto dipingerlo (e come egli stesso, in alcune celebri occasioni, ha cercato di dipingersi). Al contrario, la sua sensibilità e la profondità del suo rapporto con l’umano sentire ci appaiono come delle scomode porte su noi stessi e sui nostri abissi. Visitabili solo aprendo gli occhi alla bontà di Bess (quella che qualche lettore sciocco ha provato a medicalizzare come dipendenza tossica, non cogliendo l’idealismo poetico di fondo). Una bontà disinteressata, prona al dubbio, sofferente. Incompatibile con l’umanità bieca che, sfortunatamente, si trova a coabitare.
Un film pesantissimo e bellissimo, Le onde del destino.

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