Esce a breve il mio nuovo libro sul Cinema liminale. Qui un piccolo antipasto (su un film, naturalmente, che nel libro non tratterò).
Di Hotel (Jessica Hausner, 2004) si parla poco, anzi non si parla quasi per niente. Eppure, nel suo silenzio freddo e ripetitivo, nel suo eterno “non succedere” e nel suo scivolare fuori dal visibile, riesce a dire moltissimo. Film austriaco, con più di un’eco hanekiana (non solo per geografia ma per stile e per sguardo), Hotel si muove come un incubo sommesso, fatto di corridoi, neon, ascensori e figure che svaniscono nel buio.
Già l’incipit è un programma: muzak ovattata, rumore bianco, l’ascensore che scende. Un’immersione in uno scantinato dell’anima. Da lì in poi: corridoi deserti, suoni di macchinari, l’eco di passi che non sappiamo da dove vengano. Come nell’ipnotico esordio de L’anno scorso a Marienbad (Alain Resnais 1961), il fuori campo acustico è quasi più importante di quello visivo. Quest’ultimo, intanto, è giocato sull’illuminazione e sulle architetture liminali: luci fredde che smettono di illuminare, angoli che inghiottono. La fotografia, glaciale, cesella spazi vuoti, piscine interne (qualcosa tra Night Swim, Bryce McGuire 2024, Infinity Pool, Brandon Cronenberg 2023, e i sogni bagnati del cinema tedesco anni ’70), campi lunghi in cui non accade nulla. Eppure quel nulla è il cuore pulsante dell’operazione. Non è il vuoto il tema, quanto piuttosto l’attesa generata dallo svuotamento.
La protagonista, Irene, si muove in una realtà standardizzata e spenta: conversazioni da copione, attività ripetitive, lavoro alberghiero impersonale. Il senso di liminalità qui si lega alla coazione a ripetere. Ogni giorno è una replica del precedente, e il luogo stesso (l’hotel) si fa metafora perfetta: non casa, non altrove, ma sospensione. Come ogni spazio liminale, anche questo è aperto all’evento, ma non lo compie mai. La struttura è fatta di ellissi, di sequenze che non portano a nulla: un’uscita notturna, un club, una passeggiata nel bosco. Le cose iniziano, ma non finiscono. Hotel non è tanto un film sull’inquietudine quanto sull’inconcludenza. Ed è proprio qui che abita la sua forza politica e teorica: nel mostrare, senza scusarsi, i tempi morti, l’inutilità, la noia. Quello che il cinema rimuove, Hotel lo mette al centro.
E forse è proprio questa attrazione per l’ignoto a essere il vero motore diegetico. I personaggi si addentrano nei posti pericolosi non perché lo richieda la trama, ma perché è condizione necessaria all’esistenza. Siamo orientati al pericolo. Il limine non è solo una soglia narrativa: è la soglia tra visibile e invisibile, tra evento e attesa, tra senso e insignificanza.
Nel grande cinema del “non detto”, Hotel è un piccolo gioiello da recuperare. Fa della rarefazione il suo stile, dell’assenza la sua sostanza. In tempi di sovrapproduzione visiva, è un film che chiede il coraggio di restare fermi. Di guardare negli angoli bui del frame, dove forse – chissà – qualcosa a sua volta ci sta già guardando.

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