Premessa: qualche giorno fa diventa virale un lungo blogpost di una utente il cui nome è Kants Exhibition. Si intitola: “La Scuola Holden e la filiera della creatività a pagamento. 20.000 euro per una firma di Baricco”. Naturalmente l’articolo viene letto solo da pochi nella sua interezza, e perlopiù si diffonde attraverso gli stralci pubblicati su Instagram dalla stessa autrice. È il titolo stesso a fare da “gancio” per un’ondata di condivisa indignazione, ma questo purtroppo non coglie con pienezza ciò che invece l’articolo più diffusamente e con dovizia di particolari denuncia, e cioè il funzionamento stesso della ormai istituzione torinese.
Qualche giorno dopo la Scuola decide di rispondere “a modo suo”, lanciando un video sui propri social, composto da una auto(?)ironica carrellata di interviste a genitori degli studenti, cui viene chiesto se sono soddisfatti di avere sborsato “20k” per mandare i propri figli in quel luogo ove “Imparare dovrebbe essere sempre un’emozione, un modo di scoprire mondi che, da soli, non si raggiungerebbero mai” (sic, riprendo il modo in cui la Scuola stessa si descrive nel suo sito). Sicuramente, in effetti, un’emozione il video la suscita, e non è certo positiva. Vi vediamo una pletora di individui, ignari di ciò che ne sarebbe seguito, rispondere con leggerezza all’intervistatore (forse il social media manager?), pensando di contribuire a un contenuto simpatico. Invece, si ritrovano subissati da commenti sul classismo implicito nella situazione.
L’effetto dell’operazione appare disastroso. E il video è ontologicamente imbarazzante. Questo è un dato in un certo senso incontrovertibile. Sui social si riversa una valanga di commenti, e molti ne approfittano per togliersi qualche sassolino dalle scarpe. La Scuola Holden, d’altronde, è notoriamente un ente polarizzante. C’è chi la apprezza, c’è chi la detesta. Per questi ultimi l’occasione è ghiottissima, perché il fallo è tanto evidente da rendere gli insulti quasi legittimi. E, quasi tutti, si concentrano sui famosi “20k”, l’elitaria retta che va elargita per accedere al prestigioso istituto. Non cogliendo quindi (o cogliendo solo in parte) il nocciolo, delicato e profondo, della questione.
Attenzione. Non è che su di me la questione dell’elitarismo non faccia presa. Per scelta insegno in un’università pubblica. Ma se ci si sofferma solo un secondo allora si comprenderà come l’oggetto inizialmente polemizzato, dall’articolo da cui tutto è scaturito, non fossero i “20k” di per sé, ma ciò che i “20k” consentivano effettivamente di ottenere. Il mondo delle scuole private viaggia su queste e altre cifre, e la stessa autrice di fatto si è dimostrata disposta inizialmente a spendere il gruzzolo, salvo poi, avendo tastato con mano le dinamiche interne della Scuola, pentirsi della propria scelta. Se ci si perde questo fondamentale passaggio allora tocca ammettere che il video della Scuola Holden, rimosso poche ore dopo (una scelta maldestra, che tradisce l’assenza di una strategia — ma, in fondo, nemmeno serviva: il contesto avrebbe lavorato da solo), ha assolto egregiamente ai propri scopi.
Perché? Perché ha sottolineato una “colpa” opinabile. Quella cioè di vantare una retta alta ma perfettamente in linea con quelle di altre istituzioni private. Ha cioè, con una operazione di ragebait (scatenare la rabbia facile dell’utenza), fuorviato l’attenzione dai contenuti più sottili dell’articolo, quelli che mettevano in dubbio non tanto il prezzo ma il rapporto fra prezzo e offerta di ciò che a quel prezzo era dato. Il ragebait è uno dei mali della comunicazione contemporanea. Poco più (o forse poco meno) del classico stimolo-risposta skinner-pavloviano, mostra la saliva dei cani rabbiosi che abitano dentro tutti noi, e non è certo solo la Holden a praticarlo. Ryanair, tanto per dirne una, ci ha costruito la sua strategia comunicativa online da diverso tempo, e solo pochi giorni fa approfittava della disgrazia geopolitica in cui versa il pianeta con un post, dal suo profilo istituzionale Facebook, che così recitava: “oggi è una buona giornata per lasciare il paese”. Il buon gusto è meno redditizio dell’esibita cafonaggine.
Il video della Holden, dunque, era manifestamente, incontrovertibilmente classista, ed è stato accusato di classismo. Sic et simpliciter. Così si sono annacquati alcuni totem polemici che Kants Exhibition aveva diligentemente sciorinato. Riprendendo sempre l’articolo verbatim (non riporto gli a capo per comodità): “L’Opening Doors viene raccontato come un momento di celebrazione, una vetrina, la grande occasione. Ma per molti, in realtà, è il momento in cui si decide – in modo spesso opaco – chi merita visibilità e chi no. E soprattutto, chi è gestibile e chi no. Nel mio caso, il progetto c’era. Lavoravo a un podcast narrativo, lo stavo sviluppando nonostante un contesto psicologico e sanitario complesso: pandemia, sintomi acuti, un ricovero ospedaliero. Non cercavo sconti, cercavo strumenti. Non chiedevo scorciatoie, chiedevo chiarezza. Non mi aspettavo indulgenza, mi aspettavo formazione. Le risposte che ho ricevuto dal corpo docente non sono state né inclusive, né professionali. Alla richiesta di supporto, venivo ignorata o respinta con tono passivo-aggressivo. Alla richiesta di confronto, venivo trattata come un problema. Al tentativo di esprimere il mio disagio, veniva risposto che ‘nessuno è pagato per fare da balia.’ E qui sta il punto. Alla Holden non vieni trattatə per quello che proponi, ma per quanto sei in grado di reggere la pressione. Se sei lucido, veloce, autonomo, affabile: bene. Se ti ammali, chiedi troppo, scrivi mail troppo lunghe, hai momenti di confusione: diventi ‘difficile’. E se sei difficile, non ti aiutano. Ti isolano. Ti considerano ingestibile. Il problema non è un singolo episodio. È la cultura didattica implicita, la pedagogia del favore, la logica relazionale del ‘se stai simpatico ti aiutiamo, se sei un peso ti ignoriamo’. Una scuola privata che pretende status da accademia, ma agisce come un’azienda che seleziona clienti buoni e silenziosi.”.
Queste considerazioni sono ben più gravi di una semplice invettiva sui “20k”. E il video della Holden, consapevolmente (?), evitava di rispondervi. Operando un riduzionismo monetario che si qualifica da sé. Così come da sé si qualifica la scelta generale di replicare con un video “memoso” di pochi secondi a una lunga e dettagliata lettera aperta – da cui traspare certo anche del dolore – di una studentessa (o cliente) insoddisfatta. Si chiama, volgarmente, buttarla in vacca, deresponsabilizzandosi con il pretesto della comicità e dei proverbiali tarallucci con il vino. E il fatto che l’orda zombesca di commentatori online si sia scagliata in maniera così prevedibile al grido unanime di “classisti classisti!” dimostra che ha funzionato perfettamente. Fra i forconi le istanze si semplificano.
Sulla Holden, sui suoi metodi, sulle sue pretese, ognuno può avere l’opinione che vuole. Ma qui parliamo di un problema di comunicazione più grande, di cui la Holden è una parte irrisoria. Si tratta di una sfocatura generalizzata dello sguardo. Di una incapacità di guardare al cuore dei problemi. E di una disarmante malleabilità alla manipolazione di più basso livello. La comunicazione della Holden non è certo nata qualche giorno fa. Questo tipo di video e di contenuti online le appartengono da diverso tempo. E, ahinoi, funzionano, nella misura in cui ottengono esattamente ciò che vogliono, operando in un regime “post-ironico” (apparentemente giovanilistico, in realtà estremamente vecchio) per il quale con la scusa di non prendersi mai troppo sul serio si può facilmente attivare il pubblico tenendolo incollato e sempre pronto a coglierti in fallo, quando in fallo ti ci sei messo da solo, volontariamente.
Chiamala provocazione. Chiamalo, come direbbero loro, storytelling. A me sembra una strategia di una bassezza agghiacciante, che equipara il creatore del contenuto a una sorta di piazzista di automobili e il pubblico a una massa di minus habentes. Evidentemente l’etica della comunicazione non è un asset su cui vale più la pena di investire.
Ve la ricordate quella del dito e della luna? Ecco, tutti a guardare il dito (indice) e a rispondere con un altro dito (medio). Intanto la luna resta lì, indisturbata, e se la guardi bene scopri che non è fatta di formaggio.

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