Con “culto del cargo” si intende una specifica forma di culto millenarista, originaria soprattutto delle tribù melanesiane (a ovest dell’Oceania), poco nota eppure estremamente significativa. Durante la campagna del Pacifico della Seconda guerra mondiale, molte di quelle isole erano territori di stanza dei soldati americani, i quali ricevevano periodicamente rifornimenti e viveri tramite navi o aerei che paracadutavano casse con materiali preziosi. Questi non solo rifocillavano i militari, ma anche le popolazioni indigene, che iniziarono a interpretare la letterale manna dal cielo come di provenienza divina, sviluppando ritualità apotropaiche — spesso imitando i comportamenti stessi dei soldati — nella convinzione che queste facilitassero le consegne.
Una forma estremamente ingenua, arcaica, in un certo senso primitiva di intendere il divino e il trascendente, si potrebbe pensare adottando la stolida prospettiva di un eurocentrismo cieco. D’altro canto, tuttavia, a ben pensarci, nello sterminato orizzonte delle cultualità, quelli del cargo appaiono tra i più razionali. In quel caso, invero, vi era una effettiva “risposta” (sebbene letta attraverso una classica fallacia post hoc ergo propter hoc, come osservò anche il fisico Richard Feynman nel suo celebre discorso sulle pseudoscienze al California Institute of Technology negli anni ’70) da parte del divino designato. Fare certe cose portava a certi risultati materiali. Che è, in fondo, la pretesa strutturale di ogni culto: un do ut des, solitamente fondato su una ricompensa spirituale, ma costruito comunque secondo un principio di azione e ritorno. Comportati bene e andrai in Paradiso.
Ne consegue che tutti i culti, in un certo senso, sono culti del cargo. A cambiare è il contenuto del cargo, che non trasporta più beni di prima necessità materiale, bensì contropartite della coscienza: dal raggiungimento del benessere psicofisico (una parziale novità, almeno in Occidente, del moderno paganesimo, in contraddizione con la sofferenza solitamente predicata dalle religioni antiche) alla vita eterna, declinata nei modi più fantasiosi. Non sono un teologo, e dunque non mi addentrerò in discettazioni circa il principio utilitaristico rintracciabile in questo tipo di impostazioni, trasversali a moltissime culture umane (e discutibile nella misura in cui il buon cristiano, ad esempio, si dichiara tale in virtù di un’apertura all’altro più che al sé).
Mi interessa però, anzitutto, sottolineare una possibilità raramente considerata, eppure ipotizzabile: quella del fare per NON avere. Tipica, ad esempio, di chi interpreta il culto come missione, da cui tuttavia — in ultima istanza — il guadagno è di ordine interiore. E mi interessa poi, soprattutto, fare una considerazione di ordine antropologico-culturale, già accennata: la nostra tendenza a considerare certi comportamenti, da parte di culture lontane nello spazio e nel tempo, come primitivi, è segno di un disarmante pressappochismo. Se è vero che ciò che cambia non è il culto ma il cargo, allora risulta evidente che la presunta ingenuità delle tribù melanesiane, con le loro magie simpatetiche, non è stata superata dal civilizzato individuo occidentale. Piuttosto è stata trasfigurata, elevata artificialmente su un piano che si pretende superiore, rispetto a quello terra terra del rousseaiano buon selvaggio. Non sono il primo a dirlo né a pensarlo, e anzi quasi mi vergogno al cospetto dell’immenso lavoro svolto in tal senso da Claude Lévi-Strauss o da Jack Goody con testi fondamentali come L’addomesticamento del pensiero selvaggio (1979).
Dietro la cortina della presunzione, si intravedono le stesse dinamiche (riti, liturgie, consuetudini) e le stesse teologie (c’è qualcuno o qualcosa sopra di noi, sia esso un aereo o un dio, che ricompenserà i nostri comportamenti).
Forse, allora, è tempo di rendere meno esotico il discorso sulle cultualità del cargo. Forse, come dicevo, tutti i culti sono, in modi più o meno espliciti, culti del cargo. Forse lo sono sempre stati. E forse ciò che ci disturba davvero non è l’ingenuità altrui, ma il riflesso deformante che ci restituisce.

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