In un mondo dove “fare carriera” è diventato sinonimo di “comandare qualcuno”, ci siamo mai chiesti davvero cosa significhi “avanzare”?
Quante volte ci è capitato nella vita di sentire amici, colleghi, persone che facevano vanto della realizzazione delle proprie massime ambizioni, come quella di ottenere una promozione coincidente con – udite udite – il poter avere una squadra sotto? Avanzare, oggi, coincide sempre di più con l’acquisire ruoli di comando. Il dato è presentato come fisiologico, come naturale. Essere promossi significa diventare “capi” di qualcosa (capo-ufficio, capo-reparto, capo-sala, capo-collo – scusate, l’ultima mi fa ridere). E poi, dopo il capo, c’è il MANAGER, chimera ancestrale il cui prestigio si misura nel passaggio nominale dall’italiano all’inglese.
Mi si dirà che, in effetti, immaginare un avanzamento senza contemplare una posizione di maggiore comando è una contradictio in adiecto. Posso starvi dietro, ma fino a un certo punto. Perché, al contrario, avanzare potrebbe anche voler dire l’esatto opposto: abdicare al comando, rinunciare ad avere subordinati, guadagnare in indipendenza, snellimento, semplificazione.
Fra i luoghi comuni sui molto ricchi – in effetti – c’è quello per cui, se lo sei abbastanza, un telefono non ti serve, poiché è tutto delegato. Non saprei, non lo sono né lo sarò nemmeno lontanamente mai (né peraltro voglio esserlo).
Oggi il managerismo è un mito impossibile, cui corrisponde, a mo’ di contropartita, una perenne insoddisfazione per chi manager non lo è. Il segno di massima realizzazione è poter essere capo, guida, leader di un team, di una squadra, di un gruppo di professionisti. Avere dei subordinati, dei sottoposti, dei subalterni vuol dire avercela fatta – tanto che, in effetti, è titolo di merito per i grandi manager usare come argomento per il loro successo il numero di persone che da tale successo dipenderebbero.
Berlusconi, a più riprese, fin dai primi anni della sua attività politica, usava spesso – tendenzialmente quando si sentiva messo all’angolo – ribadire quante decine di migliaia di persone fossero state prese sotto la sua magnanima ala.
La quantità di fili invisibili che reggono queste operazioni comunicative, anzitutto retoriche, realizza una matassa indistricabile. Sicché, ad esempio, oggi il dipendente deve spesso protendersi in una forma di perenne ringraziamento nei confronti del manager, il quale va ringraziato perché ha creato per il dipendente stesso la possibilità stessa di lavorare (da cui la traslitterazione dal poco simpatico “capo” al mecenatesco “datore di lavoro”). Poco importa se, de facto, è il lavoro stesso che il dipendente fa a procurargli il salario (quando e se arriva).
Le risorse umane sono ambitissime nelle grandi aziende, perché lì si potrà, senza mediazioni, gestire le persone come quelli giù, in catena di montaggio, gestiscono i pacchi. Il manager potrà esibirsi in doti legate alle sue capacità gestionali, a cui un’intera ingegneria è oggi vistosamente dedicata. E così via.
Se avete avuto la pazienza di arrivare sin qui, vi prego di non fraintendere le mie parole. Il mio bersaglio non è personale, bensì concettuale. Conosco – per quel che vale la mia parola – manager di grandissimo valore umano e lavorativo.
Il mio discorso riguarda la conformazione della sfera lavorativa, la quale, attraverso una serie di insultanti camouflage, ha finto di emanciparsi dagli imbolsiti retaggi del passato (la gerarchia del megadirettore fantozziano, con la sua poltrona in pelle umana), per, spesso e volentieri, peggiorare sensibilmente in termini di diritti, di trattamenti, di percezione socialmente condivisa del capo (oggi manager) come figura che ha scalato la società.
La classe operaia sarà anche andata in paradiso. Ma per entrarci ha dovuto prenotare un colloquio con le risorse umane e presentarsi con un CV su Linkedin Premium. Esperienze maturate: un master di un giorno e mezzo in gestione delle mele e delle pere.

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