Limitless di Neil Burger (2011) è un film oggi cult. Ne è stata poi anche tratta una serie tv (2015-2016) che non ha avuto la stessa fortuna. La trama del film è piuttosto semplice: sul mercato nero circola una pasticchetta la quale, una volta assunta, sblocca le potenzialità massime del cervello, rendendoti una sorta di superumano con la capacità di ricordare tutto quanto ti sia passato sotto gli occhi nella vita, e massimizzando il lavoro delle tue sinapsi. Questo farmaco, l’NZT-48, è naturalmente raro e prezioso, e il protagonista, prima un omuncolo grigio e senza alcun fascino, dopo averlo casualmente provato, si trova invischiato in un pericoloso giro criminale per il suo possesso. Tuttavia è proprio nel farmaco stesso la soluzione: se prendi la pillolina di Limitless diventi tanto intelligente da poter prevedere non uno ma mille passi rispetto ai tuoi avversari, e quindi sei praticamente invincibile.
Il fascino di questo film è presto detto: è un action movie, abbastanza avvincente, con un parterre di attori capaci; ma soprattutto intercetta un desiderio comune, quello di raggiungere in modi veloci obiettivi straordinari. Il mito del cervello “bloccato”, fermo a solo il 2% o simili delle sue possibilità, è poi roba vecchia, che ogni tanto riciccia fuori, spesso da parte di malintenzionati che vogliono venderti i loro corsi per diventare ricchi. Pensate a essere un ricco che però vende corsi per diventare ricchi… ma questa è un’altra storia.
C’è però un paradosso a mio avviso maiuscolo in Limitless, e in generale in tutte le narrazioni della superintelligenza, dal topos dello scienziato pazzo in poi. Nel film infatti il sovraumano potenziamento delle capacità intellettive del protagonista coincide con una sua scalata verso il successo, che si reifica in una conquista di posizioni politiche sempre più alte, fino all’ambizione della presidenza degli USA. Similmente, tutti i superintelligenti che ci capita di vedere al cinema, quando non sono neurodivergenti (una variante del discorso che tratteremo in un altro momento), usano la loro “dotazione” per acquisire potere. In sostanza, l’obiettivo di un superintelligente pare essere lo stesso di un superstupido: avere di più. Una qualità dell’essere si riduce a una quantità dell’avere. Torna alla mente un classico della psicoanalisi, Avere o essere? di Erich Fromm (1976), in cui il primo termine viene associato a una stasi egoistica, mentre il secondo identifica un dinamismo esistenziale svincolato dal possedimento.
Mi si dirà che in qualche modo l’una o l’altra sono complementari, e che il protagonista di Limitless per essere deve prima avere. Per fare (del bene o del male poco importa qui) deve prima possedere. E tuttavia non si dà comunque la necessità di una così istituzionale scalata sociale. Io credo che, invece, la questione sia che quella della “superintelligenza” è una formula narrativa consunta e banalizzata, che serve solo a riarticolare vecchi modelli. Se gli avessero dato un supermitragliatore, sarebbe stato lo stesso. E penso anche che non sia interesse di chi scrive le storie oggi ragionare su un modello alternativo di intelligenza, che si estrinsechi al di là della funeraria massimizzazione del riconoscimento altrui.
Non scorgete anche voi il paradosso? Possibile che non ci sia un superintelligente che esca fuori dal circuito, con una prospettiva autenticamente nuova su se stesso e sul mondo? Possibile che la massima ambizione che si possa nutrire sia quella di diventare Presidente?

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