Alle porte dell’autunno la questione turistica si sfiamma, e tutto un dizionario “tecnico” viene messo a riposare in soffitta: esodi e controesodi, ondate di calore, stabilimenti balneari sono locuzioni che infestano il nostro parlare nei mesi estivi. Con esse l’intero armamentario filosofico che spendiamo a speculare sul turismo viene ibernato. Il turismo in autunno e in inverno è cosa per pochi fortunati, e non vale la pena imbastirci dibattiti troppo dispendiosi.
Colgo allora l’occasione della coda lunga dell’estate per mettere in fila un paio di pensieri. Il primo va nella direzione di una riabilitazione del “turismo“, come parola e come prassi. In questi anni siamo stati infestati da una specie di retorica del contro-turismo. No turista, sì viaggiatore. Come a dire che il primo è il tedesco con i sandali e le calze, la vistosa crema solare e la vecchia macchina fotografica appesa al collo. E il secondo? Il secondo è sempre tedesco, ha le ciabatte Balenciaga (esistono? Non so, non controllerò neppure), fa il mapping dei nei tutti gli anni e ha l’iPhone 16 Pro Max. Sono tanto diversi questi archetipi? O si narrano così: l’uno nell’onestà intellettuale di ammettere che sta andando altrove alla ricerca di qualcosa di nuovo, il secondo fingendo invece di fare qualcosa di diverso?
Questa riabilitazione del turismo come categoria mi è utile perché mi porta un passo oltre, a parlare del cosiddetto overtourism. Credo che chi mi legge sia edotto sulla questione. Ma credo anche che in molti sappiano quanto l’esperienza del viaggio oggi costituisca una specie di gigantesca contraddizione. Da un lato c’è l’esaltazione della partenza. Dall’altro l’ansia che qualcosa vada storto. E spesso va storto: gli aeroporti sono ormai luoghi di stress massimo, fatti di file infinite e di cartelloni che parlano di aerei in ritardo; le compagnie aeree sono sempre più severe nelle loro politiche sui bagagli; le mete che scegliamo di visitare sono sovraffollate. Instagram vs real life, no?
Qual è allora il punto? Abbiamo diritto, dopo un anno di lavoro duro e spesso paraschiavile, alle ferie? Immagino di sì. Il punto è che la nostra idea di ferie è sempre più piegata in direzione di un ammassamento verso gli stessi luoghi, come ho già in parte alluso qualche giorno fa polemizzando sulla Japan-mania. E ciò ha anche a che fare con una distorta idea di viaggio.
Oggi il viaggio è un’ossessione. Il viaggio è lo status quo. Tutti vogliono viaggiare. E, in un certo senso, tutti (sì, lo so, sembra parziale e classista l’affermazione) possono viaggiare. Le compagnie low cost ci hanno convinti di questa cosa: che viaggiare per il nostro svago sia un diritto. Ma avete mai calcolato qual è il costo ambientale di questa prassi? Quanto costa spostarci per un weekend da Torino a Berlino, con un volo aereo, in termini di impronta carbonica? E così stare in un hotel, con le lenzuola cambiate ogni giorno (o ogni due, così ci sentiamo più virtuosi)? E intanto mangiare in un all you can eat di sushi mentre siamo lì, perché il cibo tedesco non ci piace?
Non sto immaginando un futuro in cui non si viaggi. Sto immaginando di iniziare a introiettare un’etica del viaggio. Che contemperi varie forme di preservazione: del sé (non andare dove vanno tutti a farsi il sangue amaro); dell’altro (tornare a fare i “turisti” rispettosi, senza alcuna vergogna); dell’ambiente (iniziare a pensare che tanto in pochi di noi avranno modo di “flaggare” tutti i Paesi del mondo prima di morire, e che ci sono altre forme possibili di riposo e di realizzazione). Durante la pandemia si è piuttosto parlato di turismo di prossimità e simili. Oggi il dibattito a riguardo mi pare morto. Ed è un peccato. Ed è un problema.

Lascia un commento