Lamæntinus

Cose di cui francamente nessuno sentiva il bisogno

Shark Tank: ovvero l’idiozia del mito dell’imprenditoria

Quattro pinne all’orizzonte

Consultando Wikipedia mi risulta che lo show americano Shark Tank abbia raggiunto le 359 puntate. Ininterrotto dal 2009 a oggi, credo che questo dato, meramente quantitativo, sia prova di un certo successo di pubblico. Ça va sans dire, non ne ho mai visto “per davvero” un episodio, ma a più riprese mi è capitato di incrociarlo in una forma incapsulata e mitizzata attraverso dei reel sui social. E, questo è chiaro, da diversi anni lo show stesso ha ricostruito la propria grammatica affinché fosse funzionale a:

1. Essere social-friendly e

2. Potenziare i momenti potenzialmente croppabili e clippabili per internet, in una logica di perenne highlight.

Ma che cos’è Shark Tank? La vasca degli squali, ove la metafora sta per il seguente, semplice, protocollo narrativo: inventori e startupper con un’idea o un prototipo si presentano di fronte a un gruppo di ricchi investitori, presentano la loro proposta con un pitch creativo, e chiedono finanziamenti, spesso secondo la modalità della partecipazione, ovverosia chiedono agli investitori di immettere un capitale di ingresso e in cambio di prendersi una quota dell’azienda. Gli investitori sarebbero gli squali, che fiutano la preda. In effetti i cani da fiuto sarebbero stati ben più azzeccati, ma la metafora, come sappiamo, non è mai neutrale: quella dello squalo suggerisce un’aggressività ferina.

Il programma si innesta in un parco di reality-talent-show sterminato e fatto secondo il principio della copiacarbone. Da un lato i dilettanti (siano essi cantanti, ballerini, o inventori), dall’altro i giudici, cui vengono date le chiavi arbitrarie di dare successo ai valutati. Questo modello, quello dei vari Paese X Got Talent, X-Factor, e via discorrendo, funziona molto bene per vari motivi. Il pubblico viene cognitivamente disciolto, in una serie di micro-narrazioni espresse e sclerotizzate, in un costante freak show.

I produttori marginano enormemente, perché queste trasmissioni sono giocoforza estremamente economiche da produrre, essendo concepite secondo uno stile taylor-fordista, a catena di montaggio. Nessun grande cachet da pagare, nessuna vera esigenza in termini di spettacolo, nemmeno una selezione (salvo rari casi) di giudici di spicco, giocando sul prelievo di figure presunte esperte in campi di cui il pubblico tendenzialmente sa ben poco. È un win win, salvo per, come anticipavamo, le facoltà intellettive del pubblico, invece sacrificate.

Il punto però di oggi è un altro, e cioè l’operazione simpatia che soggiace allo show, il quale prevede di rendere gli “squali” appunto simpatici animali, e la lotta competitiva per inserirsi nel mercato e dominarlo come una simpatica farsetta. Un ennesimo modo di declinare l’American Dream (il più consunto degli american dreams) come l’innesco di grandi opportunità un po’ per chiunque.

Non serve certo un luminare a dire che le cose, per davvero, non stanno così. Che il mercato è spietato, proprio perché così è stato immaginato e perpetrato. Ma c’è qualcosa di più sottile, e cioè che questo modo di imbonire il pubblico, raccontando loro che in fondo quel che serve è una buona idea, è una dichiarazione mendace in piena regola, che continua a foraggiare il mito dell’imprenditoria come massima ambizione possibile per realizzarsi.

Hai voglia a provare a ribadire che questa proposta è un miraggio venefico, che produce e continuerà solo a produrre una pletora di insoddisfatti e ansiosi auto-dichiaratisi falliti. Nel mio piccolo, comunque, continuo a farlo.

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