Woody Allen va per i 90, e resta difficile pensare ad altri esempi di cineasti tanto blasonati e maledetti al contempo. La vita di Allen è stata a più riprese oggetto di scandali, di enorme portata, su cui non mi interessa speculare ora. Vorrei invece soffermarmi sull’ultima, recente uscita, che lo ha nuovamente posto al centro dell’occhio di un ciclone eterodiretto.
Il regista si trovava in videocollegamento alla Settimana internazionale del cinema di Mosca, e si è permesso di sostenere che la città gli piace, e che non gli dispiacerebbe dedicarvi un film. Apriti cielo. Ora, io avrei senz’altro seguito con piacere un dibattito, con lui stesso coinvolto, in cui lo si invitasse a tornare a più miti consigli, abdicando alla sua “recente” mania per le città come oggetti filmici, che ha prodotto probabilmente i suoi film peggiori negli ultimi vent’anni. Tuttavia, come immaginerete, il totem polemico era ben altro, e cioè che Allen si fosse lanciato in maniera inconsulta a esprimere gradimento per una città russa in questo momento storico.
Il regista ha naturalmente fatto quello che richiede il protocollo dell’assurdo contemporaneo: ribadire la sua posizione dissociandosi dalla guerra in corso e prendendo le distanze dal presidente russo. Bene, dissociamoci. Poi però consociamoci nuovamente per provare a identificare gli estremi di un paralogismo presentatoci invece come sillogismo: se io dico, chessò, che mi piace molto New York, devo poi dire che comunque non mi piace Trump? O meglio, il dire l’una cosa significa dover disimplicare l’altra, altrimenti incorporata nella mia prima istanza? Quello che è in crisi, sostengo, è un sistema di effetti che sembrano essere incorporati a delle cause, in qualità di implicazioni, quando invece si tratta di implicature.
Va anche aggiunto che volenti o nolenti Allen è un tassello importante della storia del cinema, e che la storia del cinema sempre volenti o nolenti vede in quello sovietico un asse di non poco conto. In buona sostanza, a chi piace il cinema tendenzialmente la Russia piace. E il cinema stesso alla Russia e all’URSS molto deve. Va da sé dunque che il discorso di Allen vantasse una sua coerenza, la quale si è poi dovuta anche didascalicamente ribadire: “indipendentemente da ciò che hanno fatto i politici, non credo che interrompere il dialogo artistico sia mai un buon modo per aiutare” (riprendo dal virgolettato del Manifesto, 26 agosto 2025). Ora, la cosa che più è umiliante è che si debba mettere Woody Allen nelle condizioni di dover proferire una banalità del genere.
Perché sì, è una banalità. È un’ovvietà che il mondo dell’arte debba, per sua natura e vocazione, non essere assimilato agli scempi della politica contemporanea, e anzi vada preservato come potenziale luogo di pace e di scambio umanitario in piena regola.
Al di là quindi dell’accanimento verso Allen, la cosa che veramente mi fa riflettere è che oggi sia sotto attacco la banalità, e che essa debba difendersi. Riprendere, per approfondimenti, il testo del sempre ottimo Stefano Bartezzaghi: Banalità: luoghi comuni, semiotica, social network (Bompiani 2019).

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