Lamæntinus

Cose di cui francamente nessuno sentiva il bisogno

In occasione dello sciopero di oggi, 22 settembre 2025, l’invito è quello – quando possibile – a interrompere le proprie attività o a convertirle in forme di riflessione privata o pubblica rispetto alle urgenze che lo sciopero stesso mira a enfatizzare. In questo caso la situazione orrenda in corso, da molto, troppo tempo a Gaza.

“Non esistono fatti ma solo interpretazioni”. La nota e inflazionata massima, sintesi di una parte del pensiero di Nietzsche, è per chi si occupa di semantica abbastanza condivisibile. Però sfugge sempre un punto: la stessa massima di per sé è un fatto, in quanto tale suscettibile di interpretazione. E i fatti, a ogni modo, esistono, e a volte urlano a gran voce di essere trattati in quanto fatti.  

Prendiamo Gaza, e proviamo a vedere con quale malizia semantica viene trattata oggi la situazione del popolo che ci vive, anzi che ci viveva, visto che decine di migliaia sono stati uccisi (e questo è un fatto), mentre gli altri vengono o cacciati o tentano di sopravvivere (che è un’azione diversa da vivere, poiché una vita è tale se contempera, nel proprio arco, dei momenti che non siano solo ed esclusivamente di dolore e sofferenza). Malizia semantica, dicevo, e già è un eufemismo, perché in realtà in molti casi è proprio – inevitabilmente – malafede semiotica.

Perché se il fatto urla, allora è cosa di buonsenso prima occuparsi della sua contingenza, e poi lambiccarsi sulle sue definizioni. Faccio due esempi, uno per chiarire, l’altro invece, conseguente, per problematizzare. Se voi incontrate per strada una persona che sta male la prima cosa che fate è soccorrerla. Il suo dolore è il fatto che urla a gran voce. Ma voi naturalmente non siete medici, e forse nemmeno avete mai fatto un corso di primo soccorso (come me, peraltro). Fate insomma quel che potete, avvedendovi del dolore della persona e chiamando aiuti. Poi i paramedici arrivano, praticano il primo soccorso, caricano la persona sull’ambulanza e la portano in un ospedale, ove sarà sottoposta allo sguardo di professionisti che interpreteranno il suo malessere e provvederanno a fare a loro volta quel che possono per curarla. In questo secondo passaggio i medici sono anche chiamati a provvedere una definizione di tale malessere, perché da questa potrebbe dipendere il tipo di trattamento da somministrare. Cos’ha questa persona che sta male? Una semplice indigestione o un infarto? A un certo punto bisogna porsi la domanda. Intanto, però, questa sta male, e bisogna fare qualcosa. L’elemento semantico, o in questo specifico caso, se vogliamo, “semeiotico”, interviene in più momenti, con differenti gradi di intensità, di variabilità, e – mi permetto di dire – di responsabilità.

Che cosa c’entra questo con quella che prima ho definito “la situazione orrenda in corso, da molto, troppo tempo a Gaza”? Beh, è presto detto. Da anni assisto, afflitto, a sedicenti dibattiti (parola ultimamente molto in voga, “dibattiti”) di questo tipo: “è guerra o non è guerra?”; “la Palestina è uno Stato o non è uno Stato?”, ma soprattutto: “è genocidio o non è genocidio?”. Capirete che, da semiologo, la questione mi interessa, eppure, al contempo, mi è rivoltante. E per i motivi di cui sopra: mentre ci si interroga, maliziosamente, sulla definizione, il fatto non cessa di esistere, e macchia indelebilmente (di sangue e di lacrime) le coscienze, individuali e collettive.

Ma proviamo ad articolare un discorso vagamente tecnico: la semantica non è una scienza esatta, non lo è mai stata. Tanto che di semantica non ce n’è mica una sola. In semiotica, solitamente, si parte con la semantica strutturale, quella di derivazione greimasiana che pretende di poter scomporre il significato delle cose attraverso delle unità minime chiamate semi (una mela è, concettualmente, [VEGETALE]+[FRUTTO]+[COMMESTIBILE] e così via). Poi però altre semantiche si aggiungono al panorama, come quella modellistica (per semplificare quella che trova le sue basi nella grammatica generativo-trasformazionale di Chomsky), quella distribuzionale, quella cognitiva, quella referenziale, quella pragmatica, quella per prototipi. Ogni teoria semantica si concentra su un’ipotesi utile a provare a spiegare come mai, lo ripetiamo, le cose significano ciò che significano. Ma anche, più sottilmente, che cosa significano. Coglierete forse il fascino di queste materie, che ci forniscono varie ipotesi (spesso sovrapponibili in maniera coerente) per spiegare come mai alla parola “mela” associamo una certa immagine nella nostra mente, cioè, in altri termini, perché e per come “mela” per noi significa proprio quella cosa lì, e al contempo non quella cosa là.

Ma, ecco, mentre noi ci interroghiamo sulle mele e sulle pere, le mele e le pere se ne stanno sugli alberi. Mentre noi invece litighiamo se a Gaza sia in corso una guerra o invece no, perché la definizione tecnica di “guerra” prevederebbe due eserciti, o se la Palestina sia o no uno Stato, giacché la definizione giuridica di Stato prevede certe cose, o ancora se vi sia in corso un “genocidio”, poiché la definizione storicizzata di “genocidio” contempla determinati requisiti, ecco mentre noi discettiamo di questa o quell’interpretazione il fatto non cessa di esistere. Ma questo non basta, perché le interpretazioni dei fatti non sono solo astrazioni teoretiche. Da esse dipendono gli atteggiamenti politici che assumiamo verso i fatti stessi.

In una recente trasmissione televisiva che ho fatto l’errore di guardare lo storico Paolo Mieli ha dichiarato che sono i demografi a stabilire cosa è o non è un genocidio, adducendo una ragione di tipo percentuale (mi pare di capire: si valuta di quanto si è ridotta la popolazione). Non mi sfugge la ratio, ma appunto il problema è, ritengo, l’atteggiamento di malizia semantica che nel contestare la definizione si posiziona come il diagnosta, nel suo studiolo, quando ancora il fatto è in medicina d’urgenza. Paolo Mieli pretende di fare il lavoro di fino quando l’emorragia è ancora in corso e sono finite le bende.

Mi ferisce poi la dolosa compassatezza con cui vengono proferite queste accuse di incongruità al termine “genocidio”. Accuse quasi sempre fondate su un errore semantico di base: pretendere che il significato di una parola non possa subire delle variazioni nel tempo, e che il senso di “genocidio” sia questione esclusiva dei demografi, quando invece la complessità del concetto è tale da convocare in gradi diversi molte discipline e sensibilità. Ecco, mi pare che tale dolosa compassatezza sostituisca invece una dolorosa compassione (a queste persone, oltre a togliere tutto, leviamo anche il diritto di sentirsi vittime? O meglio, diciamo loro che sì, sono vittime, ma mica poi così tanto?).

Altro esempio: da molto tempo si discute se riconoscere agli animali un certo tipo di definizioni specifiche. La stessa definizione di “senzienza”, ad esempio, non si limita a dire che agli animali vada data la “dignità” di poter sentire, ma anche provvede loro un certo pacchetto di diritti che a tale definizione sono precedentemente associati. Le parole e le cose, cioè, viaggiano a braccetto. Ecco dunque che non è cosa da poco dire che la politica del governo israeliano oggi si configura come genocidaria, poiché un riconoscimento definitorio e formale di questo tipo comporta un certo tipo di incriminazioni (giuridiche e morali). Così come riconoscere a Gaza una situazione di “guerra” anziché di “espulsione” o di “pulizia etnica” ha delle conseguenze diverse. Figurarsi poi dire della Palestina che ha o meno i requisiti per essere chiamata “Stato”. Insomma, vedete come la situazione definitoria sia complessa e urgente, tanto che, restando sul punto del “genocidio”, oggi la richiesta maggioritaria – appoggiata tanto da istituzioni come la IAGS (International Association of Genocide Scholars) quanto da un comune sentire – è quella di convergere nell’accettazione di questa definizione.

E qui una serie di asini cascano rovinosamente. Parlo cioè di coloro i quali mediaticamente oppongono, sfruttando maliziosamente una certa impostazione semantica (e fingendo che quella sia l’unica possibile), ragioni di natura tecnica contro tale definizione. Pretendendo che il significato sia un’unità fissa e non orientata invece dalle contingenze storiche. Soprattutto, in qualche modo, tentando l’operazione di uno smantellamento del significato dal fatto, che intanto continua a sussistere. Perché le cose sono due: 1. Ogni minuto speso in uno studio televisivo per discettare se a Gaza sia in corso un genocidio o meno è un minuto in cui a Gaza qualcuno muore, resta orfano, e così via; 2. Se anche vogliamo dire che a Gaza non è in corso un genocidio, allora quella cosa che è in corso a Gaza assomiglia comunque molto a un genocidio. Lo si può dimostrare più o meno ricorrendo a qualsiasi teoria semantica. Strutturalmente basti prendere una definizione di genocidio qualunque, in un dizionario, e vedere quali punti di quella definizione combaciano con quanto sta avvenendo (cosa che peraltro è stata già fatta).

Ma pensiamo alla semantica dei prototipi, che è più calzante. La semantica dei prototipi funziona più o meno così: ci sono dei concetti diciamo di partenza, che usiamo per misurare altri concetti. Torniamo alla mela: noi tutti abbiamo un prototipo ideale di mela nella testa; quando vediamo una cosa, per decidere se essa è una mela faremo dunque una serie di associazioni, per valutare quanto questa cosa combacia con il nostro prototipo mentale. Se la sovrapposizione è tale da non essercene un’altra migliore, allora quella cosa è per noi una mela. Attenzione, dico per noi perché il significato non è una cosa che pre-esiste nelle cose, ma è socialmente orientato (quello di “mela” e quello di “genocidio”). Quindi noi se vediamo una mela rossa, pur avendo in mente come prototipo di mela una mela verde, diremo che quella rossa è comunque una mela, perché obiettivamente assomiglia molto più a una mela verde che non a una pera, a un cacciavite, a un coriandolo. Guardiamo ora a Gaza: noi abbiamo una idea di genocidio in testa, un prototipo di genocidio (che è un oggetto culturale più complesso di una mela, lo so). Bene, la situazione a Gaza si avvicina molto più a quel prototipo che non ad altri. Questa cosa va riconosciuta. Poi appunto, ma dopo, si potrà ragionare se esisteva una definizione più calzante, oppure, come io credo, se sia più coerente e corretto aggiornare la definizione (non continuare a insistere se a Gaza sia in corso o meno un genocidio, quanto piuttosto chiedersi perché Gaza coincide per così tanti, di fatto, con un genocidio). Se accettiamo che il significato delle parole sia mobile in altri campi, se sappiamo che il linguaggio risponde alle contingenze sociopolitiche di un determinato spazio-tempo, allora vale ancora più in casi di immane gravità come quello che stiamo tristemente testimoniando.

Gaza rientra ormai nel campo semantico del genocidio. Una ricca comunità di interpreti come tale interpreta il fatto. La cosa resterà così fin quando qualcuno non provvederà un prototipo che calzi meglio. A me, ad oggi, 22 settembre 2025, prototipo migliore non viene in mente. E intanto che ci penso, qualcun altro sta morendo.

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