Quando si parla di conoscenza aperta e conoscenza chiusa, ci si riferisce a due modelli ideali che rappresentano concezioni molto diverse del sapere. Da un lato, la conoscenza aperta viene considerata come un bene pubblico: qualcosa di collettivamente accessibile, condivisibile e migliorabile da chiunque. Pensiamo, ad esempio, alle regole tradizionali per coltivare un orto casalingo, trasmesse di generazione in generazione senza vincoli di proprietà, o alle famose “ricette della nonna”, almeno quando vengono tramandate in maniera libera (senza il famoso espediente dell’ingrediente segreto). Dall’altro lato, la conoscenza chiusa è interpretata come una merce industriale, un prodotto privato e privatizzabile, vendibile sul mercato al pari di un’automobile o di uno smartphone (un esempio tipico è quello del brevetto o del diritto d’autore).
Questa contrapposizione è stata raccontata – con lo spirito ormai dimenticato dei pionieri dell’informatica – da Eric Raymond nel suo saggio La cattedrale e il bazaar (1997, trad. it. 1999), che ancora oggi rimane un testo di rilievo (e al contempo, ahinoi, poco menzionato). Raymond, di fatto mente dietro lo Jargon File (fonte “sacra” della cultura hacker) utilizza una metafora architettonica per descrivere due diversi approcci allo sviluppo del software. La “cattedrale” rappresenta il modello chiuso: un luogo in cui solo pochi hanno accesso a una visione d’insieme, mentre ai singoli programmatori vengono affidati compiti limitati e rigidamente controllati. Pensate all’utilizzo metaforico della nozione di “cattedrale”, e avrete subito chiara l’immagine. Il “bazaar”, di contro, simboleggia la conoscenza aperta: uno spazio dinamico, fluido, in cui non esiste una divisione rigida dei ruoli e dove le informazioni si accumulano e circolano liberamente, anche in un certo senso in maniera confusa (non perciò meno efficiente, ma con una idea di efficienza diffusa).
Nella società contemporanea questi due modelli non sono semplici teorie, ma si concretizzano in molteplici forme, spesso osservabili come vere e proprie coppie dicotomiche. Software libero vs software proprietario; hardware aperto (celebre è Arduino) vs trusted computing; farmaci generici vs farmaci brevettati; agricoltura tradizionale vs OGM con brevetto delle sementi e così via.
In ciascuno di questi casi, la tensione tra apertura e chiusura non riguarda soltanto aspetti tecnici, ma tocca anche dimensioni economiche, etiche e sociali. Questo è un po’ il punto più rilevante, almeno per me, e al di là del fascino un po’ morboso per le tecnicalità della chiusura della conoscenza (contrattistica, burocratemi e così via): scegliere tra conoscenza aperta e chiusa significa decidere quale ruolo attribuire al sapere, e in qualche modo se farne strumento a disposizione effettiva dell’umanità, o invece oggetto di scambio. In mezzo ai tanti orribili terreni su cui si giocano i conflitti contemporanei, quello della gestione politica del sapere è trasversale e sottaciuto, e vale la pena ogni tanto riportare la mente alla questione.

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