Tutti abbiamo in mente l’imbarazzo che si crea in una specifica situazione: siamo per strada, incontriamo una nostra conoscenza – che sia un caro amico o solo un tizio incrociato qualche volta. La speranza, di entrambe le parti, è che l’altra non si sia accorta della reciproca esistenza. Il fatto che questa sia la speranza di entrambi vanifica la speranza stessa: bisognerà interagire. Così si interagisce, e poi ci si saluta, salvo rendersi mutuamente conto di dover proseguire nella stessa direzione ancora per un po’. Da cui la necessità, impellente, di riaprire il discorso, solitamente sottolineando la coincidenza.
Ecco: questa stessa dinamica avviene, almeno in parte, quando si chiude una call su Zoom o simili. È quell’attimo in cui il nostro volto, terminato lo scambio comunicativo, resta ancora inquadrato, mentre cerchiamo forsennatamente il tasto per uscire. Una manciata di secondi che configurano un interstizio, una zona limbica fra la fine della comunicazione e la scomparsa.
Torniamo ora per strada e chiediamoci: perché facciamo così? Per educazione, direbbero alcuni. Mah, ok, ma ridurre una così complessa dinamica a semplice convenzione mi pare un po’ scialbo. Io direi che, invece, si tratta di una forma di cura, di riguardo. In sociologia si chiama principio della disattenzione civile quella dinamica per la quale, in soldoni, quando cammini e vedi qualcuno che viene nella tua direzione ti sposti un po’, cosicché non vi scontriate, dissimulando la cosa (come se nulla fosse). Ecco, la dinamica della chiacchiera di circostanza, eventualmente sottolineata come tale, può configurare una sorta di attenzione civile. Di fatto un riconoscimento fenomenologico: so che esisti, e voglio che tu lo sappia. D’altro canto, la chiacchiera di circostanza si esaurisce nella funzione fàtica: la più banale, e insieme la più importante, delle funzioni del linguaggio.
E nella videocall online? Beh, lì la prossemica digitale fa il suo, ma è interessante notare i nostri volti che si rilassano dopo la tensione della riunione, prima che le nostre dita incontrino il tasto giusto per terminare, davvero, la trasmissione. C’è uno iato sensibile, che l’apparato tecnico registra: un attimo in cui non siamo né sulla ribalta né nel retroscena, ma in una specie di terra di mezzo, per la quale non esiste codice. Lì, come in strada, dobbiamo improvvisare.
Spesso tendiamo a interpretare l’imbarazzo come una sorta di incapacità di interiorizzare ciò che percepiamo come un nostro difetto. Ma in realtà i protagonisti dell’imbarazzo non siamo noi: sono gli altri. È il loro sguardo che stiamo ponendo in primo piano. Ed è il loro esistere che riconosciamo. L’imbarazzo stesso è, credo, una forma di cura per l’altro, che non siamo capaci sul momento di interpretare come tale. D’altro canto, a pensarci bene, etimologicamente l’”imbarazzo” è l’impaccio, l’ostruzione che impedisce il moto; come quel tasto “chiudi” che non sappiamo trovare, e che ci impedisce di proseguire per un attimo che ci pare eterno.

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