Ci sono film che più che essere visti, vanno ritrovati. Break Up di Marco Ferreri – o, per molti, L’uomo dei cinque palloni – appartiene a questa categoria. Da non molto tempo restaurato da Cineteca di Bologna e Museo Nazionale del Cinema di Torino in collaborazione con Warner Bros., il film è un’opera dalla genesi travagliata, smembrata e rimontata più volte, che esiste in due versioni: la forma breve, diffusa e conosciuta, e la forma estesa, rediviva dopo oltre quarant’anni di battaglie produttive. Se nella sua versione mutilata era già una curiosità degna di nota, nella sua interezza Break Up (ma continuo a preferire il titolo italiano, e non per stolido anti-anglismo) si compone di una cornucopia di intuizioni e invenzioni che rendono la fantasia rabbiosa di Ferreri, confermandolo come uno degli autori più radicali e sottovalutati del cinema europeo.
La storia è basilare, almeno in apparenza: un uomo – il solito, straordinario, Marcello Mastroianni di quegli anni – sviluppa un’ossessione. Vuole sapere quanto può gonfiarsi un palloncino prima di esplodere. Tutto qui. Ma Ferreri trasforma l’espediente in un’allegoria corrosiva, tragicomica, sulla crisi della borghesia del boom (e del maschio borghese, diretta propaggine dell’epoca).
L’uomo è un industriale, non dell’auto, ma delle caramelle – e già questo dettaglio basta a farci sorridere amaramente; un caramellaio (a dire, una versione ancora più infantilizzata del cioccolataio con le sue figure proverbialmente barbine). Sin da questo dettaglio, apparentemente innocuo, si coglie la spietatezza di Ferreri: l’industria dell’infanzia diviene simbolo dell’infantilismo endemico del potere. La sua casa, lussuosa ma deserta, è una scenografia emblematica. La dimora dei sogni borghesi quando ottenuta diviene spazio svuotato, anestetizzato, senza memoria, che rispecchia la crisi di un protagonista, pur circondato da comfort, incapace di vivere.
Il Ferreri di Break Up è un autore feroce ma lucido, ghignante, profetico. Il film cambia registro, stile, fotografia (lo stupendo passaggio dal bianco e nero al colore e ritorno), con una fluidità invidiabile. E attraverso montaggio e regia scivoliamo nel delirio di Mastroianni, che trova il suo culmine in una festa orgiastica in cui il sogno maschile stereotipico (uno stuolo di donne pronte a fare da harem al Nostro) viene messo in scena e poi, violentemente, castrato. Quello di Mastroianni è un desiderio morto.
Il Mastroianni “latin lover” viene così ribaltato, con un succulento salto extradiegetico. L’attore non rincorre più le donne, ma fugge da tutto. La sua ossessione, all’apparenza ridicola, lo consuma, e il mondo attorno a lui sembra sordo alla sua istanza, ridicolizzandola o ignorandola, fino a condurlo a una piccola abbuffata – un’eco premonitrice de La grande abbuffata di quasi dieci anni dopo (1973) – in cui il piacere del cibo è ridotto alla pulsione di morte (suicidario).
Anche se negli ultimi anni L’uomo dei cinque palloni è circolato, questo rimane un film semisconosciuto, e che tanto, tanto meriterebbe una visione. Un film non facile, sfidante, esattamente perciò meritevole di essere visto, chiacchierato, riflettuto.

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